DOPO L’ALTRA EUROPA

campo-arato
DOPO L’ALTRA EUROPA
contributo alla discussione
del 19 luglio 2014
(Assemblea Nazionale Altra Europa con Tsipras – Roma)

Un progetto politico.
Dopo l’esperienza de L’Altra Europa è ora il tempo di osare. Di avere il coraggio di avviare un processo costituente orizzontale, partecipativo, inclusivo, accogliente e trasparente che risponda alla domanda espressa e al credito concesso da più di un milione e 100 mila elettori.
Tutti insieme, le vaste reti di attivisti, gli intellettuali, le associazioni, i soggetti politici che hanno appoggiato e sostenuto la lista, le persone che si sono spese nei comitati territoriali, tutti insieme dobbiamo proseguire. Anche nel coinvolgimento di quanti sono rimasti finora ai margini, non riuscendo a fidarsi completamente dei primi e faticosi passi della nostra Lista; anche recuperando il rapporto con coloro che dopo un primo avvicinamento se ne sono allontanati.
Dobbiamo fare fin d’ora quel che tutti si attendono: lavorare ad un progetto politico per il paese. Dobbiamo unire tutte le relazioni che abbiamo tessuto, e costruire rapporti di fiducia con chi ancora non è parte di questa nostra “trama”, con chi si muove, vive e lotta nei territori, nei luoghi di lavoro, nei comitati, nei movimenti, nelle associazioni, negli spazi fisici e culturali dove si sostanziano le contraddizioni che avviliscono e impoveriscono il nostro tempo, in questa Europa e in questa Italia.

Dobbiamo essere coerenti e chiari.
Un progetto politico chiaro e coerente, a partire dalla collocazione politica nello scenario italiano.
Il nostro programma, i dieci punti per le elezioni europee, lo spirito che ci ha guidati nella lunga campagna elettorale, le parole spese in migliaia di incontri pubblici, ci forniscono una traccia per la definizione di una carta di obiettivi e di valori non negoziabili.
Stop all’austerità. Rifiuto delle privatizzazioni dei beni comuni, della precarietà, del dominio dei poteri della finanza sui diritti delle persone, e delle scelte ispirate al liberismo. Accoglienza e solidarietà tra i popoli, perché cessi il massacro nel Mediterraneo. Contrasto delle mafie, del riciclaggio e della corruzione. Conversione ecologica, difesa dell’ambiente, tutela della salute, lotta contro le grandi opere imposte ed inutili e contro il saccheggio del territorio e il degrado del paesaggio, per trasporti equo-sostenibili ed il diritto alla mobilità per tutti. Ricostruzione di una cultura solidale, dei diritti civili, delle uguali opportunità di genere nelle differenze e di rispetto del vivente. Definizione di una politica estera che sappia rendere l’Europa promotrice di pace dentro e fuori i suoi confini.
Obiettivi e valori che ci pongono chiaramente fuori, contrari ed alternativi alle larghe intese italiane e europee e alla forze che le sostengono.
Appare pertanto ovvio che con le medesime forze politiche che stanno portando avanti le politiche liberiste, di saccheggio del territorio, di privatizzazioni dei beni comuni, e che stanno smantellando la nostra Costituzione non ci siano accordi possibili a partire dalle prossime elezioni regionali (evitando il ripetersi di geometrie variabili e di esperienze contraddittorie come quelle recenti in Piemonte e Abruzzo).
Per questo, a tutte le componenti del processo che ci apprestiamo ad iniziare si chiede una valutazione sull’opportunità di promuovere eventuali alleanze che costituirebbero motivo di imbarazzo ed in definitiva l’allontanamento di coloro che sulla costruzione di una reale alternativa  hanno investito.

L’emergenza democratica
Il Governo Renzi delle piccole-larghe intese, grazie al blocco economico e mediatico che lo sostiene, sta gettando le basi per uno stravolgimento degli equilibri democratici del nostro Paese e per portare avanti con maggior agio le politiche di austerity, le privatizzazioni di beni comuni e patrimonio pubblico, il sacrificio di diritti e tutele sull’altare della finanza e dei mercati.
Il processo avviato a partire dall’esperienza della lista “L’Altra Europa con Tsipras” deve assumersi in pieno la responsabilità di contrastare questo disegno, raccordandosi con tutte le iniziative e con i movimenti che si pongono all’opposizione di quanto si sta delineando all’orizzonte del nostro paese.
Abbiamo una grande responsabilità. Farci promotori in tutti i territori, in tutte le città, in tutto il Paese di una mobilitazione che scongiuri questo scippo della Costituzione spacciato per modernizzazione.

Domenico Finiguerra (ex candidato nord-ovest)
Annalucia Bonanni (ex candidata sud)
Enzo Di Salvatore (ex candidato sud)
Antonella Leto (ex candidata isole)
Domenico Gattuso (ex candidato sud)
Rossella Rispoli (ex candidata centro)
Ivano Marescotti (ex candidato nord-est)

Laura Cima (comitato Torino)
Roberta Radich (comitato Vicenza)
Pietro Del Zanna (comitato Siena)
Laura Orsucci (comitato Torino, referente regionale Piemonte)
Alessandro Ingaria (comitato Cuneo)
Barbara Diolaiti (comitato Ferrara)
Paolo Cacciari (comitato Venezia)
Antonia Romano (comitato Trento)
Francesco Maura (comitato Sesto San Giovanni)
Christian Canzi (comitato Monza Brianza)
Pia Di Giuseppe (Comitato Brugherio – MB)
Anna Paganini (comitato Abbiategrasso)
Theirry Dieng (comitato Varese)
Andrea Calò (comitato Varese)
Carla Spessato (comitato Vicenza)
Mario Malandrone (comitato Asti)
Paola Marciani (comitato Vercelli)
Sonia Vella (comitato Valdossola)
Filippo Pirazzi (comitato Valdossola)
Marilena Ballestriero (comitato Legnano – Alto Milanese)
Paolo Trezzi (comitato Lecco)
Simonetta Astigiano (comitato Genova)
William Domenichini (comitato La Spezia)
Federico Gozzi (comitato Savona)
Marco Pericle Parisi (comitato Ponente Savonese)
Roberto Gambassi (Comitato Valdelsa)
Fausto Tenti (comitato Arezzo)
Federico Losurdo (Comitato Urbino)
Manlio Sorba (comitato Cagliari)
Rosario Agostaro (comitato Ogliastra)
Claudio Parentela (comitato Catanzaro)
Silvia Galiano (comitato Catanzaro)
Caterina Primiero (comitato Catanzaro)
Stefano Pulcini (comitato Giulianova)
Simone Pulcini (comitato Giulianova)
Enrico Gagliano (comitato Giulianova)
Rachele Cocciolito (comitato Teramo)
Carlo Alberto Ciaralli (comitato Roseto degli Abruzzi)
Riccardo Rossi (comitato Brindisi)
Rosa Pepe (comitato Potenza)
Gaetano Sabatino (comitato Palermo)
Pino Romano (comitato Palermo)
Alberto Mangano (comitato Palermo)
Cesare Borrometi (comitato Ragusa)
Angelo Di Natale (comitato provinciale Ragusa)
Marco Vizzotto (comitato Treviso)
Vincenzo Pellegrino (Comitato Polesano)
Dino Angelini (comitato Reggio Emilia)
Cristina Franchini (comitato Alessandria)
Fabrizio Biolè (comitato Cuneo)
Ugo Sturlese (comitato Cuneo)
Gigi Garelli (comitato Cuneo)
Tiziano Frezza (comitato L’Aquila)
Diana Maria Galassi (comitato L’Aquila)
Nicola Pisciavino (comitato Casalnuovo Monterotaro – FG)
Giovanni Del Monaco (Comitato Maddaloni – CE)
Agostino Del Monaco (Comitato Maddaloni – CE)
Valeria Chioetto (comitato Milano zona 7)
Gabriele Abrotini (comitato Ravenna)
Teresa Albano (comitato Biella)
Danilo Zannoni (comitato Genova)
Carmela La Padula (comitato Matera)
Matteo De Santis (Comitato San Giovanni Rotondo – FG)
Cricca Silvano (comitato Massa Carrara )
Eliana Rasera (comitato Catania))
Serena Romagnoli (comitato 2° Municipio Roma)
Claudio Ardizio (comitato Novara)
Antonella Rosetti (comitato Ravenna)
Massimo Tesei (comitato Forlì)
Valentina Valleriani (comitato L’Aquila)
Neri Braulin (comitato Milano zona 7)
Matteo Cereda (comitato Monza e Brianza)
Marisa Evangelisti (comitato provinciale di Ravenna)
Antonietta Bottini (attivista comitato Pavia)
Alberto Casartelli (Comitato Ravenna)
Mimma Curmà (comitato Lecco)
Silvio Arcolesse (comitato Molise)
Lorenza Farina (Comitato Camogli – GE)
Gerardo Giacomazzi (comitato Cernusco S/N – MI)
Sergio Golinelli (comitato Ferrara)
Marco Palermo (comitato provinciale Teramo)
Paola Lazzaro (comitato Padova)
Paolo Del Vecchio (comitato Tuscia Sud)
Mimmo Firmani (comitato Napoli)
Mario Conti (Comitato Cuneo)
Maurizio Segna (comitato Vicenza)
Saverio Cipriano (comitato Palermo)
Sebastiano Pruiti (comitato di Enna)
Fabrizio Scoditti (comitato Brindisi)
Lucia Ciarmoli (comitato II municipio Roma, coordinamento Roma, gruppo comunicazione Roma)
Giovanni Gugliantini – comitato 2° municipio Roma, gruppo comunicazione Roma
Lucia Bisetti (L’altro Piemonte a sinistra – PRC)
Giorgio Moschella (L’altro Piemonte a sinistra – Azione civile)
Massimo Mori (L’altro Piemonte a sinistra – Azione civile)
Claudio Gagliasso (L’altro Piemonte a sinistra – PRC)
Francesco Lucat (PRC Val D’Aosta)

Guido Viale (ex garante Lista l’Altra Europa con Tsipras)
Alfonso Gianni (Direttore della Fondazione Cercare Ancora)
Paolo Andreozzi (blogger, Roma)
Athos Gualazzi (Partito Pirata)
Paolo Longo (Circolo SEL Via Giannone Roma)
Luigi Brambillaschi (ALBA nodo Martesana)
Sergio G. Contu (Salviamo il Paesaggio Genova – ATTAC – Genova)
Sandra Cangemi (giornalista Milano)
Graziano Polli (Attac Lomazzo)
Pino Greco (Fabbrikando l’Avvenire, Crotone)
Giusy Clarke Vanadia, (Azione Civile Catania)
Nicola Cipolla (presidente CEPES, Centro Studi ed Iniziative di Politica Economica in Sicilia)
Dario Sironi (Lista Civica per Sesto 2012 – Sesto San Giovanni)
Claudio Censoni (comitato Abruzzese Difesa Beni Comuni)
Claudio Paci (Riotorto – LI)
Sandro Campagnola (MDF Verona)
Federica Liberatore (avvocato, Pescara)
Alberto Gardina (Milano)
Ivo Menna (pensionato, Vasto . CH)
Ester Mordini (insegnante, L’Aquila)
Rossella Matè (impeigata, Teramo)
Chiara D’Agostino (studentessa, Teramo)
Andrea Squartecchia (psicologo Penne – PE)
Alessandro Bazzan (Padova)
Vincenzo Pietrantonio (Padova)
Gallenti Giuseppe (Catania)
Massimiliano Core (Comitato abruzzese per la difesa dei Beni Comuni)
Roberta Fanì (Comitato abruzzese per la difesa dei Beni Comuni)
Lidiana Pompeo (Comitato abruzzese per la difesa dei Beni Comuni)
Alessandro Pracilio (studente, Vasto (CH)
Maurizio Calenti (insegnante, Ascoli Piceno)
Massimiliano Travaglini (impiegato Vasto – CH)
Andrea Piermarocchi (Dottorando di ricerca, L’Aquila)
Antonio Bianco (vigilante Lanciano – CH)
Andrea Cerrone (Dottore di ricerca e avvocato, Lanciano – CH)
Emanuele Laudadio (Avvocato, Lanciano (CH)
Ferdinando Parlati (Brindisi)
Simonetta Sullam (Saronno)
Ivano Sorrentino (impiegato, Silvi Marina – TE)
Umberto e Marisa Tortorella (Castelnuovo Berardenga SIENA)
Piero Serniotti (informatico, Torino)
Angelina Divino (insegnante in pensione, Torino)
Claudia Petrucci (operatrice di formazione – Genova)
Bartolotti Lorenzo (Ravenna)
Maria Calabrese (Modica)
Lucia Capuano
Antonia Pellicano
Antonio Di Diego
Glauco Cremonesi

per aderire: dopolaltraeuropa@gmail.com

LE PROPOSTE DELLA LISTA “L’ALTRA EUROPA PER TSIPRAS”

LE PROPOSTE DELLA LISTA “L’ALTRA EUROPA PER TSIPRAS”

L’Europa nella crisi economica mondiale

A sette anni dall’inizio della crisi economica mondiale, in Europa non se ne vede la fne. Tutti gli indicatori economici indicano che non abbiamo ancora raggiunto i livelli ante 2007. Anzi siamo ulteriormente regrediti. Sia che guardiamo il debito, o la crescita del Pil, o le diseguaglianze tra paese e paese e all’interno degli stessi, o l’andamento della produzione e della produttività, o il livello delle retribuzioni, o soprattutto la disoccupazione, emerge un quadro che non accenna a migliorare. L’Europa ha oggi 27 milioni di disoccupati. Nella sola zona euro i disoccupati sono 19 milioni, oltre 7 in più rispetto al 2008, con un aumento senza precedenti dal secondo dopoguerra che continuerà nel 2014. Aumentano le disuguaglianze tra gli stati membri, con una differenza di quasi 23 punti percentuali nel tasso di disoccupazione tra il livello più basso (Austria) e quello più elevato (Spagna e Grecia). Il numero di persone a rischio di povertà o esclusione sociale è salito a 124,5 milioni nel 2012, il 24,8% della popolazione europea. L’Italia con il 29,9% è seconda solo alla Grecia nella zona euro. In questo senso la situazione è peggiore del periodo successivo alla grande crisi del 1929, quando sette anni dopo era in atto persino nel nostro paese una ripresa, poi stroncata dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Ma non in tutto il mondo la situazione è questa. Pure senza tornare ai periodi migliori, la disoccupazione sta lentamente diminuendo negli Stati Uniti d’America. Nei paesi emergenti la crisi è stata contenuta e limitata nei suoi effetti.

Questo accade perché l’Europa oltre che vittima della crisi lo è delle sue politiche.

A differenza infatti di altri paesi, le politiche fn qui seguite dalla Unione europea, ispirate alla perpetuazione delle dottrine neoliberiste malgrado la loro evidente sconftta storica, hanno portato il declino sociale ed economico a livelli fn qui sconosciuti. A tutto ciò si aggiunge un’altra grave e più recente minaccia: il Ttip (Partneriato transatlantico per il commercio e gli investimenti), un accordo discusso segretamente che permetterebbe alle imprese Usa di bypassare qualunque legge di tutela del lavoro o dell’ambiente nella loro attività in Europa.

In queste condizioni l’Unione europea e la sua moneta sono votati al fallimento. Non perché manchi una politica, ma perché sono guidati da una politica sbagliata messa in atto da una governance costruita su principi e modalità neoautoritari. Gli ultimi accordi come il fscal compact, il Six pack e il Two pack costringono i paesi più deboli a un rientro forzato del debito che ha già provocato non solo recessione economica, ma persino l’aumento del debito stesso. Nel caso di alcuni paesi, come l’Italia, si è addirittura modifcata la Costituzione immettendovi l’obbligo del pareggio di bilancio. In generale si è tolto potestà di decisione sulle politiche di bilancio ai singoli paesi senza democratizzare gli organi sovrannazionali. Il risultato è che i popoli contano due voltemeno nelle decisioni fondamentali e il concetto di cittadino d’Europa resta un miraggio perché esso non ha alcun potere su organi di governo che vengono decisi in sedi non rappresentative della volontà popolare.

Se vogliamo salvare l’idea di Europa – così come era stata pensata nel famoso Manifesto di Ventotene del 1941 – come solidarietà tra i popoli, come costruzione di un unico spazio democratico in cui fare valere i diritti dei cittadini, come soggetto politico di pace nel mondo, come luogo per l’avvio di politiche economiche che puntino allo sviluppo di settori produttivi qualitativamente innovativi, dalla difesa dei beni comuni alla tutela dell’ambiente, come ambito per un nuovo modello economico e sociale, c’è bisogno di un’immediata e radicale inversione di rotta.

Per queste ragioni abbiamo costruito la lista L’altra Europa con Tsipras, per unire movimenti, associazioni e semplici cittadini, forze politiche della sinistra e democratiche, in una lista di cittadinanza attorno alla proposta , avanzata dal Partito della Sinistra Europea, della candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione Europea.

Un uomo solo non cambia le cose. E’ vero. Ma Alexis Tsipras rappresenta l’esperienza di Syriza che in Grecia ha ottenuto grandi e crescenti consensi proprio nella lotta contro le politiche liberiste imposte dalla Ue e una nuova modalità di rapporto con i cittadini fondato sul protagonismo popolare nelle lotte.

Il suo programma – esplicitato in dieci punti che accompagnano la sua dichiarazione di accettazione della candidatura alla Presidenza della Commissione europea – prevede un radicale cambiamento della Europa attuale e dei trattati, a cominciare dall’abolizione del fscal compact, una modifcazione del ruolo della Banca centrale europea che deve diventare prestatore in ultima istanza, una ristrutturazione del debito dei paesi in maggiore diffcoltà, un rilancio di una politica economica fondata sul riequilibrio tra nord e sud dell’Europa, sulla priorità del lavoro e dell’occupazione, sulla conquista di un buon futuro per le nuove generazioni, sul rifuto del Ttip, negoziato nella segretezza, sull’apertura di un vero processo partecipato a livello popolare per dare all’Europa una vera Costituzione che non sia “quella di Davos”, ovvero quella fondata sugli interessi del capitale fnanziario e del commercio internazionale, ma sul diritto dei cittadini europei e dei migranti ad avere diritti. Questo programma risponde al grande problema che noi europei in particolare abbiamo di fronte: come uscire dalla crisi senza un massacro sociale, ma aprendo un nuovo futuro alle giovani generazioni.

Nelle note che seguono abbiamo voluto offrire ai cittadini italiani un approfondimento e un’ulteriore articolazione di quei punti programmatici per facilitare la partecipazione consapevole al voto del 25 maggio.

 

L’inversione di rotta nelle politiche europee

Un’inversione di rotta richiede di agire immediatamente, sul piano economico e sociale, almeno su tre fronti contemporaneamente: mettere fne all’austerità, avviare politiche economiche espansive e innovative, puntare alla piena occupazione e alla riduzione dell’orario di lavoro. La natura di questi obiettivi rende chiaro che non vogliamo semplicemente tornare alla situazione precedente la grande crisi, ma avviare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale che impedisca il moltiplicarsi delle crisi intimamente connesse al sistema capitalistico. Non solo, quindi uscire dalla crisi, ma anche dal capitalismo in crisi.

L’analisi della crisi economica mondiale chiarisce che non siamo di fronte solo ad una crisi fnanziaria, ma a una crisi dell’economia reale enormemente ampliata dalla dimensione internazionale e fnanziarizzata che ha assunto il capitalismo globale, in particolare dagli anni Novanta del secolo scorso in poi. Questa crisi ha molteplici cause e ragioni, nessuna delle quali va dimenticata. Vi è la diffcoltà crescente delle economie più sviluppate – in primo luogo quella statunitense, luogo da cui la crisi è partita – di mantenere un equilibrio fra le crescenti capacità produttive con una domanda effettiva, ovvero dotata di mezzi di pagamento; vi è l’impossibilità sul lungo periodo di superare queste diffcoltà attraverso un aumento vertiginoso dell’indebitamento dei cittadini; vi è la trasformazione del debito privato in debito pubblico; il passaggio dallo stato fscale allo stato debitore con la perdita del principio di progressività dell’imposta fscale e al contrario la creazione di zone franche per i grandi capitali; la affermazione del principio dell’autonomia delle banche centrali dal Tesoro dei singoli stati sul cui modello è nata la Bce; vi è l’approfondirsi delle grandi diseguaglianze fra paesi e, all’interno dei singoli paesi, dei redditi, con l’impoverimento relativo e assoluto di grandi masse di popolazione, compresi i ceti medi; vi è l’aumento della disoccupazione e della precarizzazione dei rapporti di lavoro; l’intensifcazione dello sfruttamento del territorio e delle risorse naturali, nonché il peggioramento del clima che mette a repentaglio l’ecosistema del pianeta; il passaggio dai sistemi democratici a una sorta di postdemocrazia, ossia a sistemi di governo e di governance sempre più lontani e impermeabili alla volontà e al controllo popolari; vi è l’affermarsi della guerra come mezzo di risoluzione privilegiato delle controversie internazionali.

La risposta da dare a una simile crisi epocale non può essere semplifcata, ma costituisce un insieme di politiche e di azioni a diversi livelli che devono essere condotte contemporaneamente sia al livello della società civile che nelle istituzionali nazionali e internazionali. La progressiva perdita di ruolo e potere degli stati-nazione, sia verso l’alto, con l’aumento del potere decisionale dei grandi potentati economici e degli organismi internazionali, sia dal basso, con il moltiplicarsi di spinte regionalistiche e localiste, ci indica che l’ambito europeo deve diventare il terreno migliore per condurre le politiche anticrisi che di seguito proponiamo. Se l’Unione Europea è oggidecaduta in un’oligarchia al servizio delle banche, delle multinazionali e dei ricchi, il cambiamento radicale che proponiamo sta nel rifondarla perché possa essere lo strumento della solidarietà e dell’uguaglianza, del rispetto della natura, della “vita buona” per le donne e gli uomini che la abitano. E perché sia soggetto attivo per la pace e la cooperazione a livello globale.

Mettere fine all’austerità e modificare radicalmente i Trattati

L’Europa è sull’orlo di un collasso. Questo non è dovuto all’euro in sé, ma all’impianto neoliberista dei trattati e alle politiche di austerità che hanno peggiorato e radicalizzato quell’impianto.

L’introduzione di una moneta unica in un’area economicamente disomogenea avrebbe dovuto essere contestuale a politiche di convergenza economica sul terreno della condivisione del debito, degli investimenti, delle politiche fscali, dei salari e dei diritti del lavoro. L’impianto dei trattati ha invece favorito la crescita delle disuguaglianze. Le politiche di austerità stanno aumentando ancora di più la divaricazione tra le diverse aree e tra le classi all’interno di ogni paese: l’imposizione del rientro dal debito a tappe a forzate serve a produrre ulteriori privatizzazioni con l’obiettivo di trasformare i diritti sociali e i beni comuni in merce per la valorizzazione del grande capitale. La pressione verso le cosiddette “riforme strutturali” serve per cercare di abbattere ulteriormente welfare, salari e diritti del lavoro.

Per questo mettere fne all’austerità e cambiare radicalmente i Trattati è l’obiettivo che perseguiamo. Perché esso sarebbe in grado di costruire una risposta progressiva tanto alla crescita dei divari territoriali, quanto alla spoliazione di diritti sociali e del lavoro.

L’uscita del nostro paese o dei paesi più deboli del Sud dell’Europa dall’Euro non sarebbe infatti una risposta a tali problemi di fondo, che riguardano l’economia reale e le sue strutture. Nei tempi brevi essa comporterebbe un incremento non controllabile e repentino della inflazione, che, in assenza di meccanismi di indicizzazione delle retribuzioni, provocherebbe un’ulteriore riduzione del potere d’acquisto delle persone a basso reddito. Nello stesso tempo non risolverebbe il problema del debito, essendo in buona parte nel nostro caso, posseduto da istituzioni fnanziarie estere (almeno il 40%). Questi svantaggi non sarebbero compensati da una riacquistata capacità competitiva delle nostre merci e quindi delle nostre esportazioni – come avvenne con la svalutazione della lira del 1992 – sia perché nel frattempo si è immiserita la nostra capacità produttiva soprattutto in campi innovativi, sia perché il rafforzamento della capacità produttiva ed esportativa, in questi venti anni, da parte dei paesi emergenti pone la competizione su basi del tutto differenti, non essendo possibile quella di prezzo.

La effettiva realizzazione di un’Europa solidale è dunque l’obiettivo che perseguiamo.

 

La fne dell’austerità e la cancellazione del Fiscal Compact, la modifca radicale dei Trattati, a partire da quello di Maastricht, sono un’ assoluta necessità. L’opposizione esplicita della Germania e dei paesi dell’area centrale a tali modifche, può essere battuta dalla costruzione di una coalizione degli altri stati. Va tenuto conto infatti del rilevante interesse tedesco alle esportazioni nel resto dell’Europa. Non avere operato in questa direzione ed avere all’opposto ratifcato il Fiscal Compact e il complesso delle politiche di austerità, è la responsabilità enorme dei governi dei paesi cosiddetti “periferici”, che hanno sacrifcato agli interessi del capitale fnanziario quelli della grande maggioranza della popolazione dei propri paesi.

Come affrontare la questione del debito pubblico

Mettere fne all’austerità signifca in primo luogo affrontare e risolvere il problema del debito pubblico senza condurre l’economia in recessione o in depressione. Diversamente dalla propaganda dominante, il rapporto tra debito e Pil, passato in Europa dal 66,1% del 2007 al 92,7% del terzo semestre del 2013, non è aumentato per l’eccesso di spesa per i diritti sociali. Le cause, oltre quelle più antiche di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, risiedono nell’enorme quantità di risorse che sono state messe a disposizione per il salvataggio del sistema bancario, pari a 4.500 miliardi di euro, e nella contrazione del Pil determinata dalla crisi. In questo modo si è realizzata una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico.

Per salvare l’Europa bisogna imporre una trattativa politica sulla questione del debito a livello europeo e in una sede comune. E’ interesse di tutti i paesi a più alto debito costruire un’intesa su questo obiettivo e non continuare a seguire la strada della totale soggezione alle attuali norme. Per questo avanziamo l’idea di una Conferenza del Debito Europeo, quale misura urgente per fermare la china della depressione. Seppure in condizioni diverse lo si fece nel 1953 a Londra per sanare i debiti della Germania e permettere la sua rinascita economica. La ristrutturazione del debito per altro non riguarda solo il caso della Germania postbellica ma anche le vicende più recenti di Argentina, Islanda, Ecuador. Ognuno di questi casi presenta delle specifcità che riguardano la storia economica di ogni singolo paese e le modalità della formazione del debito, ma tutti dimostrano che è possibile affrontare questo tema in termini non distruttivi per i paesi debitori, a differenza di come si è fatto con la Grecia e come si vorrebbe fare con il Fiscal Compact.

Nella sede europea bisogna dunque – anche attraverso un’analisi che porti alla separazione del debito interno e di quello estero di ogni paese, e, per quanto possibile, di quello in possesso di hedge fund, fondi di investimento, banche, imprese da quello diffuso tra piccoli risparmiatori – giungere a un taglio dei debiti che per le loro dimensioni appaiono chiaramente non riscuotibili, a una ristrutturazione dei rimanenti, allungando i periodi della restituzione, a forme di mutualizzazione su scala europea del debito. In sostanza a un insieme di misure che sono l’esatto contrario del Fiscal Compact, che quindi va abolito prima del suo ingresso in vigore previsto nel 2016. Tali misure si confgurano come alternative anche al cd. Fondo salva Stati (Meccanismo europeo di stabilità, MES) che invece prevede una pratica pesantemente intrusiva nelle politiche economiche dei singoli stati fruitori del prestito. Del resto le misure di austerità fn qui adottate si fondavano su calcoli matematici addirittura sbagliati, come ha riconosciuto lo stesso Fmi, poiché applicavano moltiplicatori che calcolavano le riduzione della economia reale a seguito dei tagli della spesa pubblica in termini del tutto falsi e riduttivi.

In Italia abbiamo un problema in più: come ritornare alla formulazione originaria dell’articolo 81 della nostra Costituzione, eliminando la modifca – votata da più dei due terzi delle camere e quindi non sottoponibile in quanto tale a referendum – che impone il pareggio di bilancio. E’ evidente che, persistendo l’attuale composizione del parlamento, una simile modifca non è possibile per via puramente parlamentare. E’ quindi necessario, come stanno proponendo diversi giuristi, organizzare un referendum sulle leggi ordinarie applicative del pareggio di bilancio e promuovere una legge costituzionale di iniziativa parlamentare che sottragga almeno la spesa per scopi sociali dall’obbligo del pareggio di bilancio, sul modello di quanto avviene in altri paesi.

La riforma radicale dei Trattati, del ruolo della Bce e della governance finanziaria

Modifcare i trattati signifca anche e prioritariamente ridefnire i compiti affdati alla Banca centrale europea. Abbiamo bisogno di una banca centrale che funga da prestatore – e compratore – in ultima istanza, ovvero che possa acquistare i titoli di stato dei paesi più in diffcoltà per inibire all’origine la possibilità di speculazione da parte dei poteri fnanziari privati. Il divieto a farlo, previsto dal Trattato, è del tutto assurdo, infatti è l’unico caso al mondo tra le Banche centrali. Grazie a questo sistema, tra il 2011 e il 2012, la BCE ha prestato alle banche europee oltre 1000 miliardi di euro al tasso di interesse del 1%. Quelle medesime banche hanno poi prestato agli stati a tassi di interesse nettamente superiori, in Italia fno a oltre il 6%.

Questo comporta la necessità di cambiare la missione che i Trattati affdano alla Bce. Quest’ultima non può avere come obiettivo prevalente che l’inflazione non passi il 2%. Per di più siamo in una fase dove il pericolo è l’opposto, cioè la deflazione, ovvero il crollo di tutti i prezzi , in primis quello del lavoro, cioè le retribuzioni, Alla lotta all’inflazione va sostituita la priorità della lotta alla disoccupazione. Del resto anche la Federal Reserve americana ha nel suo statuto l’obbligo di regolare le proprie mosse sull’andamento del tasso di disoccupazione interno. Questo si può fare modifcando e integrando gli articoli 3 e 127 del Trattato Ue, nonché l’art. 2 dello Statuto del Sistema europeo di Banche centrali (Sebc) e della Bce, in modo da porre l’obiettivo della piena occupazione tra i fni prevalenti dell’Unione e delle sue istituzioni fnanziarie.

In sostanza la Bce dovrebbe operare per favorire una mutualizzazione del debito. In particolare bisogna attuare ciò di cui da tempo si sta parlando, ma che non viene attuato per l’opposizione esplicita di alcuni paesi membri, come la Germania, che potrebbe essere superata con una pressione congiunta da parte degli altri stati. Ovvero l’emissione di Eurobond, cioè la creazione di titoli di debito pubblico emessi da uno dei paesi dell’Eurozona, ma sottoscritti da tutti gli stati membri in modo da suddividere il rischio, gestiti da un organo europeo appositamente creato.

Ogni paese membro dovrebbe avere la possibilità di emettere un prestito obbligazionario fnalizzato esclusivamente alla creazione di lavoro con la contemporanea garanzia da parte della Bce di acquisto di una quota congrua sul mercato secondario.

La Bce dovrebbe essere tenuta a vincolare il credito a banche dell’Eurozona a piani di aumento dell’occupazione nel paese richiedente, per evitare, come è già successo, che tali crediti giacciano inerti nelle banche. Allo stesso modo la Bce potrebbe favorire il credito a banche che garantiscano prestiti a basso interesse nei confronti del sistema delle piccole e medie imprese, il più sofferente della paralisi del credito attualmente in atto.

Poiché gli obiettivi della Bce cambierebbero da quelli puramente destinati a tutelare la stabilità monetaria, cioè dei prezzi, a quelli della stabilità fnanziaria e dello sviluppo dell’economia reale e dell’occupazione, il Parlamento europeo deve assumere un ruolo di indirizzo generale nei confronti della Banca Centrale, la quale con cadenza almeno semestrale dovrebbe riferire all’organo politico sull’andamento degli obiettivi prefssati, superando per questa via il divorzio fra banca centrale e forme democratiche della rappresentanza politica su cui si basano le dottrine neoliberiste in particolare dagli Ottanta del secolo scorso.

Va contrastato il potere di influenza che hanno le grandi agenzie di rating private sulle decisioni di investimento in titoli del debito pubblico. I loro rating possono mettere in gravi diffcoltà uno Stato, mentre la storia di questa crisi ha dimostrato la loro totale incapacità di prevederne lo scoppio e lo sviluppo. Inoltre il conflitto di interesse è più che evidente, poiché nella proprietà delle tre principali agenzie di rating operanti nel mondo sono presenti fondi di investimento privati di grande rilevanza. In questo modo una ristrettissima elite può decidere delle sorti del debito pubblico di uno stato sovrano, del rendimento dei suoi titoli, dei tassi di interesse e degli spread. E’ necessario quindi che la Ue si doti di un’agenzia di rating pubblica, che emetta valutazioni sulla affdabilità fnanziaria dei singoli paesi in base a criteri riguardanti gli aspetti dell’economia reale, quali l’incremento della occupazione.

Combattere lo strapotere della finanza e regolamentarne le attività

La fne delle politiche di austerità comporta però un intervento deciso sul funzionamento della fnanza nel suo complesso, per fare prevalere rispetto a questa le istanze dell’economia reale. In sostanza bisogna rendere meno vantaggioso l’impiego e lo spostamento di capitali dalle attività produttive a quelle puramente speculative. Bisogna cioè mettere i bastoni tra le ruote della speculazione fnanziaria mondiale e limitare lo strapotere delle banche, quello che alcuni autori chiamano la creditocrazia, ovvero i poteri di quell’elite cui non conviene la diminuzione del debito pubblico o privato poiché vive dei lauti proventi dei tassi di interessi. Ovvero bisogna mettere in pratica quell’obiettivo dell’eutanasia dei rentiers, di cui parlava Keynes, ma che non avviene spontaneamente.

Nel contesto europeo si è cominciato a discutere di questi temi con lo scoppio della crisi mondiale e il fallimento di alcuni grandi istituti bancari. Nel frattempo il potere delle banche in Europa si è venuto enormemente consolidando e concentrando. Nel 2011, secondo un rapporto presentato uffcialmente alla Commissione europea, nella Ue esistevano nove gruppi bancari i cui attivi superavano un trilione di euro. Le classiche banche troppo grandi per potere fallire ( too big to fail). Le misure adottate o sono insuffcienti o vanno nella direzione opposta a quella necessaria. Anziché pensare a ridurre le dimensioni delle banche, che le spingono di per sé a privilegiare l’attività speculativa rispetto a quella di servizio all’economia reale, a eliminare l’opacità del sistema, nel quale prospera un vero e proprio sistema bancario ombra, i governanti europei si sono mossi nella direzione di accrescere la vigilanza della Bce sul sistema bancario, in modo tale da renderlo oltretutto di improbabile attuazione, e obbligare le banche ad aumentare il proprio capitale per renderle più solide (cosa che in Italia è stata risolta recentemente con il trucco dell’aumento del valore delle quote delle banche private in Bankitalia). Il tanto esaltato progetto per l’Unione bancaria, che verrà prossimamente votato dal Parlamento europeo prima delle prossime elezioni, non sfugge a queste contraddizioni.

Ciò che bisogna urgentemente fare è invece separare in modo drastico le banche commerciali da quelle di investimento, il che signifca fare in modo che esse non facciano parte dello stesso gruppo fnanziario, al fne di non esporre il risparmio dei cittadini ai rischi della cosiddetta fnanza creativa.

Bisogna imporre un tetto massimo per le retribuzioni e i bonus dei dirigenti degli istituti bancari e delle società di capitale, poiché la loro indeterminatezza non è solo foriera di un’inaccettabile divaricazione reddituale, ma è anche un viatico verso operazioni rischiose alla ricerca della massima profttabilità, al fne di garantire il massimo dei guadagni privati.

Bisogna imporre il divieto di collocare fuori dal bilancio qualsiasi forma di attivo o di passivo, in modo da rendere trasparente il bilancio delle banche e evitare che queste aggirino norme e controlli.

Va attuata una drastica limitazione e una regolazione dei titoli derivati (quelli che hanno scatenato il lato fnanziario dell’attuale crisi in corso e che circolano sul mercato fnanziario in una quantità pari ad almeno più di dodici volte il Pil mondiale). Deve essere garantito che le transazioni avvengano in modo regolamentato (cosa che non avviene attualmente), che una delle controparti (il che ora non accade nel 98% dei casi) sia in possesso del “sottostante” da cui il titolo deriva. Va proibita la produzione di titoli derivati basati sulla scommessa su disastri fnanziari (come i Cds, certifcati di protezione del credito), o collegati all’aumento dei prezzi dei generi alimentari di base o a pratiche distruttive dell’ambiente (ad esempio l’estrazione di gas naturale mediante fracking, ovvero la frantumazione delle rocce con forti getti d’acqua pressurizzata). Va combattuta la fnanza ombra e comunque fatta emergere e regolata l’attività (come nel caso di Fondi che funzionano come banche accettando depositi o erogando crediti). Va vietata la cartolarizzazione dei prestiti, in particolare quando queste portano alla creazione di titoli derivati strutturati, quali le Cdo, contenenti elevate quantità di titoli di credito ad elevato rischio.

L ‘armonizzazione fiscale, la lotta all’evasione e ai paradisi fiscali

Regimi fscali fortemente differenziati sono concausa nello spostamento di capitali a scopo speculativo e fonte di ulteriori diseguaglianze. Bisogna quindi puntare a una vera armonizzazione fscale fra gli stati membri ancorata ad alcuni principi comuni, quali quelli che il peso maggiore del prelievo fscale deve poggiare sulle rendite e non sul lavoro e sui capitali reinvestiti, che si limiti l’accumulazione di ricchezza inerte con congrue tasse di successione e la presenza di tassazioni patrimoniali soggettive, partendo pure da aliquote basse e progressive, in grado di raggiungere tutte le forme di ricchezza in possesso alle singole persone.

Per quanto riguarda il nostro paese la lotta all’evasione fscale rimane un compito centrale. Infatti da noi l’evasione è tra le più alte in Europa e costituisce un pesante differenziale negativo. Perché sia effcace bisogna concentrare l’attività di Equitalia non tanto sulle dichiarazioni contenenti errori tutto sommato marginali, puniti con multe eccessive – che creano ostilità diffusa verso il fsco – quanto sugli evasori totali e le grandi evasioni.

La lotta all’evasione fscale non può ovviamente essere fatta solo all’interno dei singoli paesi, data la volatilità dei capitali. Richiede una strategia internazionale sulla quale la Ue può e deve impegnarsi. Si calcola, ad esempio, che per i cd. paradisi fscali passi circa la metà del commercio mondiale e che in essi si trovino la metà degli attivi bancari. E i paradisi fscali non stanno solo alle Cayman, ma anche in Europa, come in Lussemburgo, a Cipro o in Olanda. E’ quindi necessario che nel nostro continente si applichi una vera tassazione sulle transazioni fnanziarie, allo scopo di contenere i movimenti di capitale a solo fne speculativo (Tobin tax), anche con un’aliquota di entità modesta, come lo 0,05 richiesto da un movimento internazionale, purché estesa alla piu ampia base imponibile, includendo azioni, obbligazioni, derivati. Bisogna che ci sia una rendicontazione fnanziaria paese per paese (country by country reporting) per le imprese multinazionali. E’ indispensabile attuare una trasparenza delle informazioni che riguardano la composizione societaria delle imprese, al fne di individuare quali siano e dove siano i veri proprietari delle stesse. Il che ha anche un effetto positivo nella lotta internazionale al riciclaggio. Bisogna intervenire sul cd. trade mispricing, ovvero la pratica in uso da parte delle aziende multinazionali di alterare la base imponibile in alcuni paesi spostandola laddove minore è la pressione fscale. Va impedito che le imprese partecipate dal nostro Ministero dell’economia abbiano fliali, sussidiarie e controllate nei paradisi fscali.

Per un nuovo modello sociale ed economico: la conversione ecologica dell’economia e la ricerca della piena occupazione

Porre fne all’austerità vuole dire rilanciare un’economia basata sulla qualità più che sulla crescita quantitativa e sulla ricerca della piena occupazione. Per William Beveridge, uno degli artefci dello stato sociale britannico e quindi del modello sociale europeo che ha caratterizzato i principali paesi del nostro continente nel trentennio seguito alla Seconda guerra mondiale il concetto di piena occupazione era strettamente connesso a quello di un lavoro “decente”, ossia giustamente retribuito e dotato di diritti. Le teorie neoclassiche, riprese poi da quelle neoliberiste, hanno invece sostenuto un’idea di tutto sbagliata, che James K. Galbraith sosteneva andasse “gettata nel fosso”, ovvero quella che andasse mantenuto un certo tasso di disoccupazione per non incrementare l’inflazione.

Quello che proponiamo è invece legare il cambiamento del modello di produzione alla ricerca della piena occupazione, almeno come obiettivo tendenziale (del resto solo in una società statica, anche demografcamente, esso potrebbe essere raggiunto in modo pienouna volta per tutte) e alla riduzione dell’orario di lavoro. Lo stesso obiettivo del reddito minimo garantito non viene posto da noi in contrasto con il perseguimento di una piena e buona occupazione, ma come strumento indispensabile per spezzare i ricatti nel mercato e nel mondo del lavoro e affermare il diritto all’esistenza. Le politiche economiche si intrecciano così con quelle del lavoro, della riduzione dell’orario di lavoro, della conversione ecologica e del miglioramento della qualità della vita, anche se qui le esponiamo distintamente.

Il primo problema che un’Europa unita e solidale deve porsi è l’eliminazione degli squilibri tra i vari paesi e tra zona e zona dello stesso paese. La stessa moneta unica non può sopravvivere se non si attua un riequilibrio generale fra Nord e Sud dell’Europa, fra Ovest ed Est, all’interno dei singoli paesi. Se squilibri già così gravi continueranno ad approfondirsi lo stesso Euro è destinato a implodere. Sono le attuali politiche della Ue che mettono a repentaglio l’esistenza di una moneta unica e spingono verso la creazione di aree monetarie diverse (come un Euro del Sud e uno del Nord) che cristallizzerebbero le differenze.

Questo signifca che non possono esistere paesi esportatori in modo prevalente e paesi sostanzialmente solo importatori. Il riequilibrio delle bilance dei pagamenti deve essere un obiettivo da perseguire per la stessa stabilità europea.

La storica questione meridionale italiana, ulteriormente aggravatasi in questa crisi, deve trovare una sua soluzione in ambito europeo. E’ a tutti gli effetti una questione europea. Nello stesso tempo il Mezzogiorno d’Italia è immerso nel Mediterraneo e quindi la sua rinascita dipende dallo sviluppo di tutta la zona euromeditterranea. Come diceva Aldo Moro: ”Nessuno è chiamato a scegliere fra l’essere in Europa ed essere nel Mediterraneo poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”.

La Costituzione di una Comunità Med-Eu potrebbe essere una delle azioni qualifcanti che la Ue dovrebbe avanzare nel semestre di presidenza italiana, attraverso la preparazione di una Conferenza diplomatica, aperta ai soggetti attivi nella società civile, subito dopo le elezioni maggio, articolata in un confronto fra le carte dei diritti fondamentali della Ue, quelli dei Paesi arabi, della Carta Islamica e dell’Unione Africana; un incontro di tutti i soggetti economici interessati, pubblici e privati, per dare vita a un piano in un quadro di un’economia circolare nel bacino del Mediterraneo; la convocazione di Stati generali della gioventù, data la grande incidenza delle giovani generazioni soprattutto nel bacino meridionale nel Mediterraneo, per dare vita a piani di lavoro e di scambi culturali, come la defnizione di un Erasmus Mediterraneo, che darebbe fato anche alle nostre Università del Mezzogiorno che perdono il 10% degli studenti all’anno.

Il riequilibrio di cui parliamo comporta che a livello europeo si rafforzi il bilancio comunitario e si attuino grandi scelte programmatrici su cui condurre iniziative produttive innovative.

Il bilancio europeo è oggi un’entità irrisoria ed è stato diminuito recentemente. Indica che non si vuole condurre una politica comune sui grandi temi dell’economia reale. Esso va quindi aumentato in modo congruo – ad esempio dall’attuale 1,2% al 5% del Pil europeo -, va fnanziato con una imposta europea, quale potrebbe essere la Tobin tax, anche per sottrarlo al predominio dei contributi dei paesi più forti, e va creata la fgura istituzionale che lo gestisca sulla base delle grandi scelte di investimento indicate dal Parlamento.

Non va confuso il concetto di programmazione con quello di dirigismo. Quest’ultimo del resto è già in atto, poiché le scelte economiche produttive sono prevalentemente frutto delle esigenze della Germania di mantenere il proprio primato nel settore manifatturiero per garantire la propria politica neomercantile basata sulle esportazioni. Una programmazione a livello sovrannazionale signifca tenere conto delle diverse condizioni e vocazioni produttive dei vari paesi; operare scelte condivise non solo dai governi ma anche dalle popolazioni interessate; pensare l’Europa comemulticentrica e il territorio come una rete non come una dorsale di attraversamento; fare della difesa dell’ambiente, della cultura e dei beni culturali, dei beni comuni naturali e sociali, delle istituzioni del welfare che garantiscono l’universalità, la gratuità e la qualità dei servizi alle persone, la base materiale della cittadinanza, la leva di un nuovo sviluppo e non il limite da abbattere per estendere il campo di profttabilità della grande fnanza e del capitale privato.

In questo quadro l’intervento pubblico diretto in economia – oltre per ciò che riguarda il Welfare state – può e deve un nuovo ruolo, purché accompagnato da una ferrea intransigenza nei confronti della corruzione e della malagestione, capace non solo di rispondere ai bisogni elementari e primari della popolazione, ma anche a quelli più maturi, derivanti dal processo di allargamento dei diritti. L’intervento pubblico può infatti arrivare là dove quello privato non ha interesse ad andare, ovvero nei settori più innovativi, a redditività differita, ad alta intensità di lavoro. Ciò che vogliamo è esattamente l’opposto di ciò che sta succedendo e che è alla base delle dottrine neoliberiste, ovvero che il settore pubblico conquisti sempre maggiore peso nell’economia reale, non necessariamente e non tanto inglobando i settori privati, quanto innovando terreni e modalità di sviluppo economico e produttivo. E laddove si verifcano scontri tra principi costituzionali, quali il diritto alla salute e quello al lavoro, come è successo ad esempio all’Ilva di Taranto, a causa delle logiche di profttabilità del privato, oppure conflitti tra la volatilità dei capitali privati e la stanzialità delle forze del lavoro, come avviene nei processi di delocalizzazione, lo Stato può e deve agire con pesanti forme dissuasive fno alla nazionalizzazione delle imprese.

Questo comporta anche una politica di contrasto alle delocalizzazioni operate all’unico scopo di operare in situazioni di basso costo del lavoro, di minore tassazione, di assenza di organizzazioni e attività sindacali. Le delocalizzazioni sono ovviamente il contrario del processo di internazionalizzazione delle imprese, che pure deve essere sottoposto a precise verifche sulle condizioni di lavoro, salariali e normative applicate nelle fliali estere. Vanno quindi introdotti precisi obblighi per chi ritiene di dovere semplicemente spostare le proprie attività altrove, quali la restituzione degli incentivi o delle riduzioni fscali fno a quel momento godute in virtù della legislazione dello Stato ospitante; l’impegno a collaborare alla riallocazione dei lavoratori in altre attività e unità produttive; l’assunzione dei costi dello smantellamento o del riattamento delle strutture industriali e della bonifca dei terreni. L’imposizione di simili misure potrebbe anche avere il positivo effetto di costringere le multinazionali a riconsiderare i vantaggi economici delle delocalizzazioni.

Linee essenziali per una nuova politica economica climatica e ambientale

Non possiamo qui sostituirci a un simile processo non certo di breve periodo, ma solo accennare ai settori economici fondamentali nei quali è urgente intervenire per una vera conversione ecologica dell’economia, per un’economia climatica e ambientale, che ingloba il tema della giustizia sociale, e per la creazione di nuovo lavoro di qualità. Abbiamo bisogno di un nuovo corso dell’economia che abbia quel forte impatto di cambiamento che ebbe il new deal di Delano Roosvelt nell’America degli anni Trenta. La cura del territorio, il suo riassetto idrogeologico sono ancora ai giorni nostri delle priorità, proprio a causa delle modalità devastanti che lo sviluppo economico ha assunto con sempre maggiore aggressività. In particolare riteniamo urgente e possibile che il prossimo Parlamento Europeo, con i necessari passaggi istituzionali, giunga alla elaborazione di un Piano europeo per l’occupazione, il quale stanzi almeno 100 miliardi di euro per dieci anni per fornire occupazione a 5-6 milioni di disoccupati e inoccupati entro un tempo breve, naturalmente tenendo conto delle situazioni nazionali dove è più grave la condizione dell’occupazione, come il nostro che avrebbe bisogno nel più breve tempo possibile di un milione di posti di lavoro in più. Visto quello che si è fatto e si speso per salvare le banche non si tratta di una richiesta irrealizzabile.

La voce più signifcativa del bilancio europeo è ancora l’agricoltura. Essa rimane fondamentale per il soddisfacimento dei bisogni reali delle popolazioni. Quindi le aree agricole vanno difese dalla cementifcazione o dalla trasformazione in puro terreno di collocazione di strutture energetiche. La politica agricola comunitaria va profondamente riformata, evitando di privilegiare le aree forti, lo sviluppo speculativo delle bioenergie, l’asservimento all’industria di trasformazione, o il ricorso agli Ogm. I requisiti ambientali e quelli contenuti nella strategia per la Biodiversità della Ue, vanno direttamente integrati nella nuova politica agricola europea. Va favorita la ripopolazione delle zone rurali interne – come nel Mezzogiorno d’Italia, anche con la distribuzione in comodato d’uso delle terre incolte, degli immobili non utilizzati o confscati alle mafe, a cooperative o imprese individuali – e delle zone mediterranee, quale fattore per garantire un’autosuffcienza alimentare, la difesa e la qualifcazione del territorio, occasione di nuova occupazione che innovi e affni la produzione dei prodotti agricoli e dei loro derivati, garantendo una ricca varietà dei medesimi. L’Europa ha una grande risorsa: la dieta mediterranea, già riconosciuta come patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, su cui fare leva per garantire un nuovo sviluppo qualitativo dell’agricoltura e un contenimento dell’allevamento intensivo di animali a scopo alimentare, teatro di violenza e sofferenza per il vivente animale che dobbiamo e possiamo evitare. Bisogna difendere i nostri mari da pratiche di pesca eccessiva e illegale, in modo da ottenere una ripopolazione ittica e garantire la sopravvivenza di tutte le specie.

É proprio dal dossier agricoltura che emerge con forza la doppia valenza del tema ambientale. Da una parte l’ambiente va considerato come valore intrinseco, e la tutela della biodiversità, del paesaggio, degli ecosistemi va incentivata con forza attraverso il rilancio dei programmi europei relativi. Dall’altra va sottolineato che l’ambiente, secondo la legislazione comunitaria, andrebbe “internalizzato” in ogni aspetto dell’attività ed in ogni politica dell’Unione. Se da una parte questa ha condotto notevoli passi in avanti, sussistono ritardi e contraddizioni, ma anche grandi potenzialità . Il settore energia-clima ne è la prova evidente anche alla luce delle recenti decisioni del Commissario Barroso e della Commissione di rivedere al ribasso gli impegni per le riduzioni di emissioni di gas serra e il sostegno alle rinnovabili, a favore di una maggior enfasi su fonti energetiche a basso costo per le imprese.

Circa l’80% delle normative sull’ambiente viene deciso dalla Ue. E’ quindi qui che si gioca la grande partita sul clima e per la trasformazione del modello energetico. Bisogna quindi garantire che tutti gli obiettivi assunti in questi campi dalla Ue per il 2020 vengano conseguiti e rafforzati. Altrimenti non è possibile arrivare ad una riduzione complessiva delle emissioni sul pianeta dell’80% entro il 2050, la cui tappa intermedia al 2025 è fssata in un range tra il 40% e il 60%. La crisi economica porta con sé già naturalmente una riduzione dei consumi energetici. E’ il caso in cui da una cosa cattiva può nascere una cosa buona: il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni può e quindi deve essere anticipato. In particolare in Europa bisogna entro il 2025 ridurre i gas serra del 60% e aumentare le energie rinnovabili del 45% (stroncando ogni tendenza al ritorno del nucleare o al mantenimento della dipendenza energetica del nostro paese dal gas russo o dallo shale gas americano, estratto con la devastante pratica del fracking, o al rilancio del carbone e del petrolio la cui ricerca è fortemente invasiva degli equilibri ambientali) e ridurre i consumi energetici del 40%.

Nel campo dell’energia la transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili richiede una decisa scelta nel campo della ricerca scientifca e degli investimenti in questa direzione. Nessun paese può farcela da solo. E’ quanto mai necessaria una programmazione delle politiche energetiche a livello europeo, cosa fn qui non accaduta e una delle cause più evidenti della debolezza dell’Europa nel quadro economico mondiale. Del resto questo tema si incrocia con problemi decisivi e strategici di politica estera, come è del tutto evidente anche nella grave crisi ucraina tuttora in corso. A tale fne è’ indispensabile la promozione, culturale e pratica, di un diverso modello di produzione e consumo, fondato non sulla crescita infnita delle merci, ma sull’assunzione del concetto di limite e la produzione di nuovi beni: la riproducibilità della natura, l’accesso ai saperi, la cura delle persone e la qualità delle relazioni.

Va bene evidenziata la relazione tra ambiente, debito ecologico, giustizia ambientale e riconoscimento e tutela dei beni comuni.

Proprio la questione dell’accessibilità e della gratuità dei servizi idrici è stata al centro di un grande movimento sia sul piano nazionale che europeo. L’acqua come bene comune è diventato un concetto diffuso e condiviso tra le popolazioni. In Italia l’esito del referendum è stato il migliore di sempre (ha votato Sì oltre la metà degli aventi diritto al voto, quindi la maggioranza assoluta). In Europa l’iniziativa promossa dal sindacato europeo dei servizi pubblici (Epsu) ha raccolto più di un milione800mila sottoscrizioni. La risposta della Commissione Europea alle tre questioni poste con l’ICE è stata però generica ed elusiva. Infatti sul primo tema – garantire il diritto universale all’accesso all’acqua per tutti i cittadini europei – viene affrontato sostenendo che la Ue promuoverà una consultazione pubblica per rafforzare questo diritto. Sugli altri due temi – evitare la liberalizzazione del servizio idrico e toglierlo dalle materie oggetto dei trattati internazionali di libero scambio – la Commissione evita di prendere posizione, confermando di fatto un’opzione privatizzatrice. Dobbiamo al contrario ribadire e ottenere la piena attuazione degli obiettivi sopra richiamati dall’Ice (Iniziativa dei Cittadini Europei), anche per rendere concreto l’esercizio di questo strumento, entrato in vigore nell’aprile del 2012, di partecipazione e di democrazia di cui l’Europa ha tanto bisogno.

L’economia della conoscenza deve essere uno dei punti fondamentali di una programmazione e di una politica di investimenti pubblici a livello europeo. Così non è stato. Particolarmente nel nostro paese. Lo sviluppo della rete nelle sue forme più evolute e libere è non solo una necessità economica, ma il suo libero accesso è un diritto per tutti, un bene comune. E’ quindi importante che si completi, nella legislatura entrante, in tutte le parti necessarie all’applicazione corretta, la recentissima decisione del Parlamento europeo di porre fne ai costi del roaming entro il 2015 e di garantire che l’accesso ad Internet sia fornito in conformità con il principio di “neutralità della rete”, il che signifca che tutto il traffco internet deve essere trattato allo stesso modo, senza discriminazioni, limitazioni o interferenze, indipendentemente da mittente, destinatario, tipo di servizio, contenuto, dispositivo, servizio o applicazione.

Più in generale va superato l’istituto dei copy right e il sistema dei brevetti, ovvero tutto ciò che anziché garantire la giusta remunerazione del lavoro umano in campo cognitivo ed il suo riconoscimento sociale – che vanno accuratamente assicurati e protetti – lo trasforma in proprietà delle imprese e ne confsca la distribuzione, affermando al contrario la libera circolazione, diffusione e utilizzo delle opere creative dell’intelletto umano.

La concezione dell’Europa come rete non deve riguardare solo il mondo virtuale, ma anche quello fsico e investire pienamente la politica dei trasporti delle persone e delle cose. Va combattuta quindi una visione che si basa su attraversamenti del territorio secondo grandi dorsali: la visione che ha partorito i famosi corridoi, di cui la Tav Torino-Lione rappresenta uno degli aspetti giustamente più contestati per il carattere faraonico, costoso e invasivo del territorio, mentre esistono concretamente soluzioni alternative assai migliori sia per metodi, che per costi più contenuti, che per risultati. L’unità d’Europa si fa anche collegando tra loro fsicamente i vari punti del suo territorio, non solo le grandi capitali. Per questo la politica dei trasporti pubblici va progettata costruendo una rete sia a livello nazionale che sovrannazionale, in modo da favorire l’incontro tra persone e lo sviluppo delle economie locali.

 

Il Trattato di Lisbona ha affdato alla Commissione europea la competenza sul commercio internazionale. In questo modo a livello multilaterale, multi bilaterale, bilaterale la Commissione europea negozia con Paesi terzi, senza alcuna consultazione con le istituzioni dei Paesi membri, regole e condizionalità che impattano pesantemente sui sistemi produttivi ad ogni livello. In questo quadro di oscurità e di accentramento si sta discutendo il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), un trattato di libero scambio tra Unione europea e Usa. L’oggetto delle trattative segrete, lanciate uffcialmente nel luglio 2013, riguarda non solo le barriere tariffarie, ma anche quelle non tariffarie che riguardano standard di sicurezza e di qualità di aspetti sostanziali della vita dei cittadini, quali l’alimentazione, l’istruzione e la cultura, i servizi sanitari, i servizi sociali, la tutela ela sicurezza del lavoro. L’oggetto della trattativa è dunque la mercifcazione dei servizi pubblici, dei beni comuni e dei diritti dei cittadini a vantaggio della proprietà privata e delle mire di guadagno dei grandi centro economici. Bloccare questo Trattato, scoperchiare la segretezza delle trattative, è il primo passo indispensabile per ripensare il commercio su basi diverse. Le grandi mobilitazioni che dalla fne degli anni Novanta in poi si sono generalizzate contro il WTO (Organizzazione mondiale del commercio, OMC nell’acronimo italiano) sottolineano come attraverso le politiche commerciali sia passata tanta politica di spoliazione delle popolazioni e di incremento delle ingiustizie e delle diseguaglianze che hanno caratterizzato questa fase storica della globalizzazione. Per questo la governance del commercio internazionale deve essere riportata all’interno dell’Onu superando il Wto e la segretezza delle sue trattative.

Il commercio, interno ed internazionale, può invece essere un fattore di benessere diffuso anche a livello locale, può diventare lo stimolo e il viatico per un diverso modello produttivo. Bisogna quindi progettare fliere a partire dal loro valore sociale, ecologico, territoriale, oltre che economico. Il problema non è quindi quello del Made in ma piuttosto quello del Made how. Bisogna pensare a progetti di cooperazione produttiva solidale, anche locale ma aperti al mondo. Come abbiamo detto nel caso dell’agricoltura nel quadro Mediterraneo, dove la creazione di un marchio MED potrebbe qualifcare i prodotti agricoli di qualità sociale e ambientale. Bisogna rivalorizzare il ruolo dei mercati rionali, ridestinando a questo scopo spazi sottoutilizzati, sperimentando nuove forme di connessione tra banco di vendita, luogo (offcina, laboratorio) di produzione, spazio di formazione, sia nei grandi centri urbani che nei luoghi più periferici. Bisogna aiutare lo sviluppo della piccola distribuzione organizzata, i gruppi di acquisto solidale che si sono diffusi come forma di autodifesa nei confronti della crisi che ha colpito le capacità d’acquisto. Tutto ciò va accompagnato da modelli di certifcazione alternativi rispetto a quelli tradizionali, sperimentando la certifcazione partecipata, ovvero una relazione organizzata tra produttori e consumatori. Allo stesso tempo vanno ridotte le complessità burocratiche connesse all’esercizio delle attività commerciali, senza fare venire meno i controlli indispensabili sull’igiene, la qualità delle merci e le condizioni in cui si svolge il lavoro.

La piena e buona occupazione e la riduzione dell’orario di lavoro

Non esistono le politiche dei due tempi, sia a livello statale che a livello di impresa in campo occupazionale. La storia del nostro paese – e non solo – lo ha ampiamente dimostrato. Come non c’è prima l’austerità e poi il rilancio della crescita, così non avviene che le imprese prima aumentino la produzione e poi aprano possibilità occupazionali. Per cui verrebbero sempre prima i sacrifci dei diritti. La ricerca della piena occupazione è quindi allo stesso tempo un fattore e un risultato di uno sviluppo costruito sui basi qualitativamente nuove come abbiamo fn qui descritto nelle linee essenziali. Ma non essendo un prodotto automatico di quest’ultimo essa richiede delle apposite politiche.

Soprattutto in questo campo, quello del lavoro, bisogna muoversi in modo diametralmente contrario alle politiche dominanti, che infatti hanno accresciuto disoccupazione, precarietà e povertà, compreso il dilagante fenomeno dei workers poor. Oggi, in Europa, dopo che la bugia della “austerità espansiva” si è rivelata come tale, le classi dominanti puntano su quella che potremmo chiamare la “precarietà espansiva”, ossia la fnzione che abbattendo ogni regola del mercato del lavoro si aprano le porte alle assunzioni da parte delle imprese.

Il governo italiano, con il decreto Poletti, che cozza contro le stesse norme della Ue – per questo sosteniamo con convinzione la denuncia promossa dall’Associazione dei giuristi democratici dello Stato italiano nella persona del suo Presidente del Consiglio dei Ministri per violazione del diritto comunitario – e l’annunciato Job Act, appare come la punta di diamante in questa operazione di totale mistifcazione e di concreto abbattimento dei diritti dei lavoratori.

La nostra proposta è che l’obiettivo della piena occupazione, ovvero di un lavoro decente a una retribuzione suffciente a soddisfare i bisogni delle persone, sia inserito esplicitamente e in modo cogente nei Trattati europei. Che, come abbiamo già detto, sia la diminuzione del tasso di disoccupazione il parametro che regola le azioni della Bce e degli altri organi europei. Che si stimolino i paesi europei, condizionando gli eventuali prestiti a questo fne, a che formulino precisi e circostanziati piani del lavoro per incrementare l’occupazione ad ogni livello e in ogni settore. Che si produca, a partire dal settore manifatturiero e nel campo dei lavori prevalentemente manuali e ripetitivi, una consistente riduzione d’orario su scala giornaliera e settimanale, la cui effcacia ai fni del mantenimento e dell’incremento dell’occupazione è già stata sperimentata con successo in alcune grandi aziende europee. Che si affermi a livello europeo il principio del contratto di lavoro a tempo indeterminato come regola generale del rapporto di lavoro. Che il ricorso del contratto a termine sia sempre ritenuto un’eccezione da motivare da parte del datore di lavoro e tale da costituire un costo aggiuntivo. Che siano cancellate tutte le altre norme che incrementano la precarietà, come il lavoro interinale, il lavoro a chiamata, il fintolavoro a progetto, il finto lavoro autonomo ecc. (in Italia ne esistono più di 45 e sarebbe noioso nominarle tutte). Che ci si muova verso una convergenza salariale tra i vari paesi europei per evidenti ragioni di giustizia sociale e retributiva e per evitare vantaggi che facilitino delocalizzazioni di imprese. Che a questo fne si stabilisca un salario minimo orario al di sotto del quale non sia possibile scendere e al di sopra del quale parta la libera contrattazione sindacale per gli aumenti retributivi a livello di contratti nazionali, territoriali e aziendali. Che il diritto di sciopero sia comunque garantito in ogni settore economico e produttivo e contemporaneamente sia previsto il divieto di serrata, come è nella Costituzione italiana. Che la rappresentanza sindacale sia regolata da precise norme, per via contrattuale e/o legislativa, in modo tale che sia garantita la democrazia interna alle organizzazioni sindacali e che le lavoratrici e i lavoratori abbiamo la possibilità di esprimersi attraverso un voto segreto e garantito da precise modalità almeno sugli esiti degli accordi che li riguardano direttamente. Che sia garantita la possibilità della partecipazione dei lavoratori a forme di controllo dell’impresa e delle scelte sugli investimenti, senza che ciò diventi una limitazione o un condizionamento della libertà di lotta sindacale per il miglioramento delle proprie condizioni retributive e lavorative. Che vengano generalizzati, indipendentemente dai vari settori e dalle dimensioni dell’impresa, ammortizzatori sociali che proteggano il reddito dei dipendenti nei periodi di crisi o di riorganizzazione aziendale. Che venga istituito in ogni paese forme di reddito minimo, o basic income, che sottragga i giovani dal ricatto della povertà e del sottolavoro, o addirittura del lavoro nell’ambito dell’economia criminale, e li metta in condizione di trovare un lavoro decente. Che la formazione diventi permanente e permetta al lavoratore un continuo aggiornamento di fronte ai cambiamenti produttivi, tecnologici, organizzativi e culturali dell’ambiente di lavoro e di quello sociale. Che il servizio dell’impiego pubblico venga opportunamente dotato di tutti gli strumenti conoscitivi per facilitare l’incontro tra domanda e offerta del lavoro.

Difesa e universalizzazione dello stato sociale. Un social compact

Come sappiamo uno dei mantra del neoliberismo è la riduzione del ruolo dello Stato a tutti i livelli, particolarmente nel campo della risposta ai diritti e ai bisogni dei cittadini. Il modello sociale europeo, basato sul nesso fra welfare state e piena occupazione, è stato quindi posto sotto attacco in questi ultimi decenni per creare spazio libero alla privatizzazione e alle logiche del proftto nel campo dei servizi ai cittadini ogni livello. Infatti la presenza di un’istruzione, di una sanità, di una previdenza – e, nei paesi più avanzati, di altro ancora – universali e gratuiti sottraeva spazio al mercato privato, dando vita a un modello di sviluppo tendenzialmente alternativo a quello capitalistico classico. Nel nostro paese, come si può vedere ad esempio nel campo previdenziale, tale attacco è stato particolarmente intenso e violento, sfondando facilmente nel ventre molle della sinistra tradizionale – ora non più nemmeno defnibile tale – e della moderazione delle politichesindacali avviata con le politiche concertative degli anni Novanta. Questo attacco è stato anche facilitato dai mutamenti intervenuti nella catena della produzione del valore, dal processo di fnanziarizzazione del capitale, dagli aspetti concreti che ha assunto la globalizzazione. Non solo vengono smantellati interi sistemi pubblici di welfare, ma si tende alla costruzione di piccoli sistemi di welfare aziendale, spesso con la compiacenza delle organizzazioni sindacali, che rendono addirittura esclusivi servizi che dovrebbero essere universali ed a carico della fscalità generale. Per cui non si tratta soltanto di difendere lo stato sociale, nella speranza di ricostruirlo come prima, ma di dare vita a un sistema di welfare europeo, di contrapporre al fscal compact un social compact.

Un social compact che comprenderà misure immediate per affrontare le conseguenze sociali delle politiche di austerità, quali la crescente povertà e marginalità sociale, intervenendo con programmi di sostegno alle categorie maggiormente colpite quali giovani, anziani, donne – nel quadro di quel piano straordinario per la piena e buona occupazione di cui abbiamo già parlato – e in settori fortemente compromessi dalle politiche di taglio della spesa pubblica, in primis il settore sanitario. Così facendo si costruiranno le premesse necessarie per la tutela ed il rispetto della dignità e dei diritti umani, sociali ed economici di ogni persona che vive nel territorio dell’Unione, senza distinzione alcuna. Non si tratta soltanto di ripristinare lo stato sociale come era ai tempi del suo massimo sviluppo nei tre decenni successivi al secondo dopoguerra, ma affermare un nuovo spazio pubblico in cui i beni comuni, naturali e sociali, e gli istituti del welfare siano sottratti alle logiche di mercato e del proftto e gestiti secondo pratiche di democrazia partecipativa.

Non partiamo da zero. La Carta dei diritti fondamentali della Ue, che ha uno status pari a quello dei trattati istitutivi, pur fra diversi limiti e cose da cambiare, riconosce il diritto all’istruzione, alla non discriminazione, alla piena partecipazione dei diversamente abili, alla tutela in caso di licenziamento ingiustifcato, il diritto alla previdenza sociali, all’assistenza sociale e abitativa, a un elevato livello di tutela della salute. Tutte cose non solo rimaste disattese, ma peggiorate dalle politiche concrete della Ue e dei singoli stati nazionali in nome dell’austerità. Nel programma Europa2020 è stato ricompreso un importante obiettivo sociale: la riduzione di 20 milioni della popolazione a rischio di povertà ed emarginazione. Ma la povertà è cresciuta di 8,7 milioni dal 2009.

Nel quadro della lotta alla povertà, alla disoccupazione e alla precarietà è quindi fondamentale la generalizzazione di un reddito minimo (basic income), che in Italia manca totalmente (anche se nell’attuale Parlamento vi sono proposte di legge di iniziativa parlamentare e popolare che attendono di essere discusse), secondo le stesse indicazioni contenute nella Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 “Sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa”. Tale misura non va intesa come alternativa al lavoro né condizionata all’accettazione di qualunque tipo di lavoro, ma come un concreto sostentamento che metta in condizioni i giovani di trovare un lavoro decente (decent work). In questo senso tale misura va accompagnata da un insieme di servizi gratuiti, che vanno dalla formazione alla fruizione delle manifestazioni culturali, a particolari facilitazioni per assolvere alle esigenze abitative e di trasporto. Il nuovo welfare deve cioè farsi carico del grande problema dell’enorme disoccupazione giovanile, cosa che non era presente in questa misura nel passato, deve essere particolarmente, anche se non esclusivamente, un welfare di nuova generazione per le nuove generazioni.

La questione dell’istruzione assume quindi un ruolo centrale. Le politiche educative europee negli ultimi decenni, dal processo di Bologna alla strategia di Lisbona, sono state attraversate da una continua contraddizione, una tensione tra due tendenze contrapposte quanto reciprocamente legate: da una parte le promesse di internazionalizzazione, convergenza e investimento sull’economia della conoscenza (il 40% di laureati, la dispersione scolastica sotto il 10%, ecc.), dall’altra l’introduzione nei sistemi pubblici di logiche e modelli sempre più standardizzati, parcellizzati, aziendalistici (i crediti, la valutazione nozionistica, i ranking – le classifche -delle università). La crisi e l’austerity hanno messo defnitivamente una pietra sopra la prima di queste due tendenze, lasciando spazi senza precedenti alla seconda.

È in corso un attacco predatorio ai processi formativi, con l’obiettivo di smantellare i sistemi educativi pubblici per aprire spazi di proftto al credito e ai privati. I tagli all’istruzione e al diritto allo studio e l’aumento vertiginoso delle tasse universitarie caratterizzano diverse aree dell’Europa, dai cosiddetti Piigs al Regno Unito, a prescindere dalle diverse situazioni dei bilanci pubblici, e arrivano anche alle politiche dell’Unione Europa, se si pensa al recente dibattito sulla trasformazione delle borse Erasmus in prestiti.

Bisogna invertire la rotta, rivendicando anche in sede UE il rilancio degli investimenti pubblici su scuola, università e ricerca. Serve una “Maastricht dei saperi”, un accordo, vincolante e reso attuativo per mezzo di interventi sanzionatori, sul raggiungimento di determinati obiettivi: quote di investimento in istruzione e ricerca, servizi minimi agli studenti (borse di studio, alloggi, accesso alla cultura, reddito), sostegno all’innovazione, nella prospettiva di un generale livellamento verso l’alto delle politiche dell’educazione e di una reale convergenza sulla best practices a livello continentale, che renda possibile una reale internazionalizzazione dei percorsi educativi e di ricerca. Bisogna che il diritto a lavorare dove si vuole non si trasformi nella fuga delle migliori conoscenze verso i paesi più forti economicamente, accrescendo così le diseguaglianze e perpetuandole nel tempo.

Dobbiamo impedire che passi una linea, su cui insiste particolarmente la Germania, per cui esperienze come l’Erasmus verrebbero fnalizzate ai bisogni immediati dell’impresa, poiché la funzione della scuola di ogni ordine e grado deve essere la formazione di un cittadino europeo dotato di una cultura critica e universale e non solo specialistica. Allo stesso tempo una attenzione particolare va rivolta ai percorsi e ai periodi di formazione strettamente intesa, garantendo un’interlocuzione con il mondo del lavoro, dal dottorato di ricerca agli stage, salvaguardando quest’ultimo in particolare da forme odiose di sfruttamento di lavoro non pagato. Serve un impegno reale dell’Unione nella costruzione di un sistema di welfare della formazione e del lavoro, che garantisca continuità di assistenza e reddito.

Tutto ciò comporta una diversa concezione della cultura e dei beni culturali. La cultura non è solo un patrimonio da conservare, magari con logiche di nicchia, cui si ha accesso in modo discriminato per censo e facilità di accesso. “La cultura – come scrive Telmo Piovani – è proprio questo: trasmissione non genetica delle informazioni”. E’ un diritto delle persone, è un bene comune. La sua trasmissione e la fruizione dei suoi prodotti deve essere libera e universale, anzi l’Unione europea deve farsi concretamente carico della sua diffusione eliminando tutti gli ostacoli materiali e sociali che la impediscono. Non ha senso alcuna separazione, come tra cultura umanistica e cultura scientifca, e il pluralismo degli approcci e dei punti di vista è un suo carattere essenziale. La cultura, nel suo senso più ampio, è un fattore dello sviluppo civile, morale materiale del nostro contenente ed è la chiave che lo apre al resto del mondo. In questo quadro va concepita la tutela dei beni culturali e paesaggistici, testimonianza perenne dello sviluppo umano e naturale. Le risorse pubbliche ad essi dedicate non sono un lusso, ma un elemento della conversione ecologica dell’economia. Il privato può concorrere a questo compito, a condizione che si smantelli l’idea che la cultura sia solo occasione di grandi eventi, ove il contenuto culturale diventa accessorio e pretesto per iniziative commerciali e legate alla profttabilità.

Nel campo della ricerca, il ruolo sempre maggiore ricoperto dai fondi europei, in particolare da quelli gestiti della Commissione, pone questioni che vanno affrontate, dall’accountability democratica degli obiettivi a cui questi fondi sono rivolti alla garanzia della libertà di ricerca in un contesto in cui modellare obiettivi e progetti sugli standard defniti dalla Commissione è l’unico modo di vedere fnanziato il proprio lavoro di ricerca. Su questo c’è bisogno di un dibattito aperto, se vogliamo un mondo del sapere in grado di sfdare le opinioni convenzionali e precostituite, consentendo cambi di rotta e analisi critiche dell’esistente.

Una cittadinanza europea dei saperi, che preveda l’accesso universale e gratuito alla conoscenza in tutto il continente, livelli standard di diritto allo studio e welfare studentesco in tutti i paesi, investimenti sulla libera ricerca, è un tassello necessario nella costruzione di un’altra Europa. La conoscenza, in questo contesto, può essere il motore della trasformazione del mondo in cui viviamo, in una prospettiva di giustizia sociale e ambientale. Invertire la rotta sulle politiche educative e di ricerca può permettere all’Europa di compiere uno scatto di innovazione senza precedenti, imprimendo una nuova direzione allo sviluppo, coinvolgendo le università, le forze sociali e le comunità locali nella costruzione di nuove fliere produttive, al servizio del territorio e della società, invece che della loro distruzione.

La difesa del diritto alla salute si ripropone con nuova forza dentro la crisi e le politiche di austerità. Proprio queste ultime hanno aggravato pesantemente la situazione sanitaria in importanti paesi europei. Valga per tutti l’esempio della Grecia. La rivista specializzata Lancet ha recentemente pubblicato dati aggiornati sulla situazione sanitaria in quel paese, da cui risulta che sono aumentati i casi di infezione HIV tra i tossicodipendenti; che è aumentata la mortalità tra le persone ultra55enni a causa della diffcoltà di accesso ai servizi e per la carenza di cura delle malattie croniche; che è aumentata la mortalità infantile; che tra il 2012 e il 2013 sono raddoppiati i casi di tubercolosi. Anche questo dimostra che la sanità incrocia la grande questione dei beni comuni e va garantita entro l’ambito pubblico e gratuito per tutti i cittadini; contrastando i processi di privatizzazione delle strutture sanitarie e parasanitarie, i tagli della spesa sanitaria e i sistemi di ticket, le politiche oligopolistiche, a volte persino criminali, delle grandi imprese farmaceutiche; garantendo la gratuità di tutti farmaci essenziali e salvavita, classico esempio di bene comune non naturale ma sociale; attuando politiche di convergenza della effcienza e della qualità delle strutture sanitarie su scala europea, e delle stesse retribuzioni e possibilità di guadagno del personale medico e paramedico; abbattendo tutte le limitazioni alle prestazioni mediche che devono rispondere alla effettiva esigibilità di servizi sociosanitari frutto delle lotte dei movimenti e sanciti legislativamente, come quello delle donne sull’aborto oppure quello contro ogni forma di segregazione della malattia mentale o quello per una libera scelta sulla fne della propria vita; rivedendo l’accreditamento al privato convenzionato secondo una funzione sussidiaria all’interno della programmazione pubblica. Non va infne dimenticato che per garantire effettivamente il diritto alla salute e per renderlo meno costoso per la collettività, bisogna cominciare dalla prevenzione, il che chiama in causa il funzionamento dei servizi di prevenzione sul territorio, per controllare la salubrità dell’ambiente e nei luoghi dove si svolgono attività lavorative, per diminuire drasticamente l’incidentistica e le morti sul lavoro.

In tutta Europa, e particolarmente in Italia, è stato preso di mira il diritto alla pensione. La situazione, già drammatica, diventerà tragica quando entreranno nell’età pensionabile le generazioni vittime di una precarizzazione costante dei rapporti di lavoro e inserite in un sistema pensionistico puramente contributivo. Il che, connesso con l’auspicabile aumento della speranza di vita, renderà questa, nella sua fase fnale, più una sofferenza che un vantaggio. La materia pensionistica è di competenza dei singoli stati. Ma l’Europa non può dimenticare che la condizione in cui si svolge la vecchiaia dei propri cittadini, la cui percentuale sui giovani è destinata ad aumentare, è una misura del suo grado di civiltà. Del resto la Commissione europea è più volte intervenuta con direttive e raccomandazioni in modo gravemente restrittivo in materia previdenziale. Queste ultimamente hanno riguardato meno il nostro paese, perché già pesanti sono state le controriforme qui effettuate. Si tratta quindi di voltare pagina.

Il diritto all’autosuffcienza dopo una vita di lavoro deve essere garantito a tutti. La vecchiaia non è uguale per tutti. Chi ha fatto un lavoro usurante, manuale, stressantemente ripetitivo, vi giunge in condizioni peggiori e con minori speranze di vita, come dimostrano tutte le statistiche. Non ha quindi senso né continuare nelle politiche di elevazione dell’età pensionabile – del resto non seguite da tutti i paesi, visto che la Germania ha ridotto senza penalizzazione l’età pensionabile da 67 a 63 anni _ né progettare limiti uguali per tutti. Siamo convinti che chi ha lavorato come operaio in fabbrica, o ha svolto mansioni similari – dando quindi al concetto dei lavori usuranti un’interpretazione più moderna e estensiva, non solo legata, ad esempio, al lavoro in miniera -, dopo 35 anni di lavoro abbia pieno diritto di godersi una pensione dignitosa.

Quindi non si può pensare a tagli pensionistici quali misure di austerità per il risanamento dei bilanci. Nel caso italiano è stato dimostrato che non solo l’Inps è in attivo, ma che fnanzia il defcit dello stato. Al contrario bisogna elevare i minimi e il grado di copertura (in sostanza i “tassi di sostituzione”) delle pensioni per evitare la precipitazione degli anziani nella fascia della povertà. La previdenza complementare può rimanere una libera scelta dei cittadini, ma non deve diventare sostitutiva per l’insuffcienza di quella obbligatoria e può essere garantita da istituti pubblici anziché privati, al fne da sottrarre il risparmio previdenziale dei cittadini alle manovre speculative nel campo della fnanza internazionale di cui sono spesso attori i fondi pensionistici, compresi quelli di categoria o aziendali. La persistenza di rapporti di lavoro instabili e discontinui impone di favorire sistemi pensionistici di tipo retributivo anziché contributivo, altrimenti lo stato dovrà soccorrere in altra forma, con una spesa ancora maggiore, i cittadini anziani privi di protezione previdenziale o sotto i minimi vitali.

Naturalmente le politiche per gli anziani non si risolvono nel diritto alla pensione. L’Europa può condurre un’azione che sviluppi politiche di vecchiaia attiva, favorendo, ove le condizioni soggettive lo permettano, la presenza degli anziani in vari servizi sociali di ogni livello destinati al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini, valorizzandone il ruolo e la funzione nella società e non solo nella famiglia.

La questione abitativa, anche a causa dei processi migratori da un lato e della concentrazione dei capitali nelle speculazioni edilizie dall’altro, è tornata ad essere tema di prima grandezza nella vita quotidiana delle persone. Vi sono grandi differenze di approccio in Europa. L’Italia è uno dei paesi che sta peggio, essendo crollata ogni forma di edilizia popolare e sociale, mentre si continua a costruire nuovi appartamenti che restano invenduti. In altri paesi europei si hanno invece esperienze positive che vanno generalizzate, come il social housing, la trasformazione di zone di insediamento industriale in strutture abitative e sociali, la cura dei centri storici, la manutenzione del patrimonio abitativo esistente, la costruzione di case popolari, politiche di contenimento dei prezzi, a partire da quelli dell’afftto. Tutto ciò dimostra che si può intervenire in questo campo garantendo il diritto all’abitare senza cementifcare il territorio e dare spazio alla speculazioneedilizia.

I diritti dei migranti

L’Europa che vogliamo deve diventare uno spazio culturale aperto, con un’identità plurale e dinamica, capace di fondare le relazioni tra gli stati membri e con i paesi terzi sul reciproco rispetto, sul riconoscimento delle specifche diversità culturali, sulla promozione delle libertà e dei diritti fondamentali, sul mantenimento della pace tra i popoli, sulla garanzia del principio di eguaglianza, sul rifuto di ogni forma di discriminazione, sul ripudio della xenofobia e del razzismo. Il contrario della concezione ora dominante dell’Europa come una “Fortezza”. In questo quadro la questione dei diritti dei migranti assume un ruolo fondamentale nel nostro programma.

I 32,9 milioni di migranti che risiedono nei paesi dell’Unione Europea rappresentano il 7% della popolazione (pari a 503 milioni). I migranti comunitari costituiscono un terzo dei residenti stranieri, mentre sono 20,7 milioni i cittadini di paesi terzi, pari al 4,1% dell’intera popolazione europea.

A dispetto di un ampio riconoscimento teorico dei benefci delle migrazioni nei suoi documenti uffciali, l’Unione Europea ha sino ad oggi concentrato la sua attenzione su politiche fnalizzate a prevenire, quando non ad impedire, e a controllare i flussi migratori, lasciando in secondo piano il processo di comunitarizzazione delle politiche di accoglienza, di inclusione sociale dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati, l’attuazione dell’Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi e dell’Agenda su migrazioni e sviluppo.

La “cooperazione” con i paesi terzi è stata subordinata alla gestione delle politiche migratorie tramite l’offerta di incentivi a combattere l’immigrazione irregolare. Fino alla costruzione di lager anche nel bacino sud del Mediterraneo. La stipula a livello comunitario di patti e accordi bilaterali con i paesi terzi ha privilegiato i paesi di transito e di origine dei migranti diretti in Europa; l’aiuto europeo per lo sviluppo destinato a questi paesi è stato sempre più condizionato alla loro frma di accordi di riammissione dei migranti giunti irregolarmente in Europa e rintracciati dalle autorità del paese di destinazione.

Il fallimento di un approccio alle migrazioni prevalentemente sicuritario è tragicamente esemplifcato dalla morte di migliaia di migranti nel Mediterraneo e dalle numerose violazioni dei diritti umani dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati nelle strutture di detenzione allestite nei diversi stati membri dell’Unione e in alcuni paesi confnanti.

Nell’attuale fase di crisi economica e sociale è importante che l’Unione Europea rafforzi il proprio impegno nella lotta a tutte le forme di xenofobia e di razzismo combattendo ogni forma didiscriminazione legata all’origine nazionale, ai tratti somatici, alla lingua, alla religione, alle diversità culturali reali o presunte. La crescita di movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi che utilizzano strumentalmente il tema delle migrazioni per accrescere il proprio consenso presso l’opinione pubblica rappresenta un pericolo per la costruzione di un’Europa democratica, solidale, coesa e di pace. Combattere la concezione dell’Europa come una fortezza signifca in primo luogo abbandonare il programma Frontex (l’acronimo inglese che sta per Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea) un’istituzione con sede centrale a Varsavia, in Polonia. L’Agenzia è nata il 3 ottobre 2005 con decreto del Consiglio Europeo, con l’obiettivo di coordinare e controllare il pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri per quanto riguarda gli Stati dell’Unione Europea, ma anche di stabilire e incoraggiare la nascita di accordi con i Paesi confnanti con l’UE per le questioni relative allariammissione dei migranti extracomunitari respinti lungo le frontiere. Per questi scopi Frontex dispone di 26 elicotteri, 22 aerei, 113 navi e sofsticate attrezzature radar in caso di attacco aereo o marittimo.

Contro la vergogna europea di porre barriere ai diritti umani si sono levate voci autorevoli e sono cresciuti importanti movimenti. Ma molta strada c’è ancora da fare. Il 4 aprile 2014 è stata lanciata la campagna “L’Europa sono anch’io” che si rivolge esplicitamente a tutti i candidati al Parlamento europeo. La nostra lista risponde positivamente a quell’appello facendo proprie le dieci richieste formulate, che qui riassumiamo come parte integrante del nostro programma:

1. Ratifca della Convenzione dell’ONU del 18/12/1990 “sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”.

A distanza di 23 anni dal varo della Carta da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, essa non è stata ancora ratifcata da parte di nessun paese europeo.

Chiediamo che l’Unione Europea ratifchi la Convenzione al fne di assicurare un quadro di riferimento omogeneo ed universale a livello comunitario per la garanzia dei diritti umani dei migranti e dei loro familiari.

2. Garanzia del diritto di voto amministrativo ed europeo.
Una parte signifcativa dei cittadini che vivono in Europa è esclusa dalla possibilità di partecipare

attivamente alla vita della comunità in cui risiede.

È urgente un’azione dell’Unione Europea fnalizzata ad armonizzare le legislazioni nazionali al fne di riconoscere ai cittadini stranieri non comunitari il diritto di voto alle elezioni amministrative ed europee, al fne di colmare una grave discriminazione nell’esercizio del più elementare diritto alla partecipazione democratica.

 

3. Riconoscimento della cittadinanza europea.

È urgente un’azione dell’Unione Europea fnalizzata ad armonizzare le legislazioni nazionali al fne di favorire l’acquisizione della cittadinanza del paese di residenza da parte dei cittadini stranieri stabilmente residenti e da parte dei “fgli dell’immigrazione” nati in Europa o qui trasferitisi in tenera età e che frequentano le nostre scuole. Si tratta, anche in questo caso, di promuovere un principio di uguaglianza e di inclusione sociale.

4. Garanzia del diritto di arrivare legalmente in Europa.

È urgente l’adozione da parte dell’Unione Europea di politiche migratorie che rendano effettivamente possibile alle donne, agli uomini e ai bambini di altri continenti di raggiungere legalmente il territorio europeo senza mettere a rischio la propria vita. In particolare, è necessario: a) ampliare e armonizzare le norme che regolano l’ingresso nell’Unione Europea per motivi di lavoro; b) riformare il Regolamento Dublino III, abolendo l’obbligo di presentare richiesta di asilo nel primo paese di arrivo; c) aprire canali di ingresso protetto per le persone bisognose di protezione internazionale.

5. Politiche migratorie aperte all’inserimento degli stranieri nel mercato del lavoro.

Una gestione corretta e positiva delle politiche migratorie, oltre che a rispondere alle necessità del mercato del lavoro consentendo agli immigrati pari opportunità ed un permesso di soggiorno per ricerca occupazione, cosa che non avviene con le norme irrazionali in vigore, deve anche facilitare l’inserimento lavorativo per i richiedenti asilo e per i titolari di protezione internazionale che sino ad oggi sono anch’essi penalizzati dalle norme restrittive ed anch’essi in balia del lavoro nero e del supersfruttamento.

6. Garanzia della libertà personale e chiusura dei centri di detenzione.

In tutti i paesi europei sono presenti centri di detenzione nei quali sono detenuti i migranti colpiti da provvedimenti di espulsione. Si tratta di strutture chiuse e presidiate dalle forze dell’ordine in cui viene limitata la libertà personale delle persone detenute. Tali centri espongono i migranti a trattamenti inumani e degradanti e non garantiscono l’effettività dei provvedimenti di espulsione auspicata dai legislatori nazionali. La chiusura delle strutture di detenzione in tutti i paesi dell’Unione è necessaria e urgente.

7. Diritto a un’accoglienza dignitosa.

I sistemi di accoglienza dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati dei diversi stati membri sono fortemente differenziati e caratterizzati da standard di accoglienza diversifcati. La standardizzazione e l’armonizzazione dei sistemi di accoglienza sono indispensabili anche al finedi riequilibrare la presenza dei migranti e dei richiedenti asilo nel territorio dell’Unione e favorire il loro inserimento sociale e lavorativo nella società di residenza.

8. Garanzia della parità di accesso ai sistemi di welfare.

L’accesso dei migranti all’istruzione, ai servizi sanitari, alle prestazioni sociali e previdenziali deve essere garantito in tutti i paesi dell’Unione Europea. Sollecitiamo l’Unione Europea ad intraprendere iniziative volte a rafforzare la prevenzione e la tutela contro le discriminazioni istituzionali che diano luogo a disparità di trattamento in questi ambiti.

9. Liberare il dibattito pubblico dalla xenofobia e dal razzismo.

Sollecitiamo un maggiore impegno delle istituzioni comunitarie fnalizzato a rafforzare la prevenzione, il monitoraggio e il contrasto di tutte le forme di stigmatizzazione e di istigazione alle discriminazioni e al razzismo nei confronti dei migranti e delle minoranze da parte di rappresentanti del mondo politico, istituzionale e dell’informazione.

10. Tutela dei diritti dei minori.

Tutti i paesi dell’Unione Europea devono proteggere i diritti dei minori stranieri sulla base di una parità di trattamento con i cittadini dei paesi di residenza e di transito. I minori stranieri non possono essere espulsi e in nessun caso può essere limitata la loro libertà personale.

L’Europa si può solo costruire con la democrazia

Se si vuole avere la prova della tendenziale incompatibilità tra il moderno capitalismo e la democrazia, persino nelle sue forme classiche, cioè puramente rappresentative, basterebbe guardare, oltre all’evidente involuzione dei sistemi istituzionali nei singoli paesi, alla storia della formazione della governance europea. Questa si è venuta delineando con crescente velocità e decisione proprio in questi ultimi anni. Si può dire che le forze dominanti hanno utilizzato la crisi per costruire un sistema a-democratico e sempre più autoritario. Gli stati nazionali perdono di sovranità a favore di organismi del tutto impermeabili alla volontà popolare, perché non elettivi. Questa costruzione ha portato al comando un’oligarchia tecnocratica il cui disegno politico è sostenere il potere delle multinazionali, delle banche, delle classi e dei ceti più ricchi rovesciando l’austerità addosso alle popolazioni europee.

La prossima legislatura europea deve diventare una legislatura costituente. Perché questo accada però non è suffciente che un numero di pensatori illuminati si riunisca per decidere un testo di una nuova Costituzione. C’è bisogno della partecipazione viva di movimenti, organizzazioni politiche e sindacali, cittadini. Abbiamo bisogno di avviare subito dopo le elezioni del 25 maggiouna vera e propria campagna costituente capace di coinvolgere i soggetti sociali oltre che le intellettualità nell’elaborazione di un nuovo disegno democratico e costituzionale, con cui ridare credibilità al progetto di unità europea.

L’idea di fondo da perseguire è quella di una Europa federale. Le ragioni stanno scritte nel celebre Manifesto di Ventotene del 1941, che fondò le basi ideali di questo progetto: “E quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifca cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.

Gli estensori di quel bellissimo documento non potevano certo sapere che dieci anni prima, rinchiuso nelle carceri fasciste, Antonio Gramsci aveva scritto in quelli che diventeranno i Quaderni del carcere che “esiste oggi – eravamo nel 1931- una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione verrà realizzata la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale municipalismo”.

Per muoversi in questa direzione che richiede un percorso tutt’altro che breve, bisogna in primo luogo che i poteri del Parlamento europeo, unica struttura elettiva fnora esistente, vengano ampliati. A questo fne è bene che il Parlamento di Strasburgo sia eletto su liste europee e non più nazionali, come avviene oggi. Il Parlamento deve diventare il luogo del potere legislativo in Europa. Quindi ad esso va affdato il compito di conferire e togliere fducia a un vero governo europeo, con il conseguente superamento di quegli organi non elettivi, ma nominati dai singoli governi, cui è ora delegato il potere reale a livello europeo, come la Commissione europea, il Consiglio europeo, la riunione dei ministri delle fnanze (Ecofn). In questo quadro il bilancio europeo deve essere incrementato – per cominciare nella misura e con le modalità già dette – e vi deve essere una fgura ministeriale a governarlo. La Banca centrale europea deve seguire gli indirizzi di fondo che derivano dalle politiche economiche decise dal Parlamento, ponendo al primo posto l’obiettivo della piena e buona occupazione.

Tuttavia un impianto istituzionale democratico non può reggere, specialmente su scala sovrannazionale, senza forme di partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni. Va quindi intensifcatodasubitol’utilizzodel dirittod’iniziativadeicittadinieuropei(ICE)checonsentead unmilionedicittadinieuropei diprenderedirettamenteparteall’elaborazionedellepolitichedell’ UE, invitando la Commissione europea a presentare proposte legislative sulla materia oggetto della raccolta delle frme. Fin d’ora, quindi, ci dichiariamo impegnati a sostenere la raccolta delle frme per l’ICE che reclama una nuovo corso nelle politiche economiche europee (New Deal 4 Europe. Per un piano europeo straordinario per lo sviluppo sostenibile e l’occupazione:

http://www.newdeal4europe.eu ). L’attivazione di forme di democrazia diretta e partecipata serve anche 28

per rifondare la politica a livello europeo e ridare forza ai cosiddetti corpi intermedi, quali le organizzazioni politiche e sindacali, le associazioni, i movimenti organizzati e strutturati, che sono indispensabili per contestare la curvatura violentemente autoritaria in atto.

Un nuovo concetto di cittadinanza europea

In questo modo si può dare concretamente vita alla idea di una cittadinanza europea, frutto di un processo storico e sociale, non fondato sull’etnia o sul territorio, che ha arricchito le persone di nuovi bisogni e di nuovi diritti, del “diritto di avere diritti”, come diceva Hannah Arendt. Anche qui scontiamo un processo negativo. Il modo con cui concretamente è avvenuto il processo di unità europea ha spesso fatto arretrare frontiere del diritto che negli Stati nazionali parevano acquisite. Si può fare l’esempio del diritto del lavoro, che ha subito pesanti arretramenti con le negative sentenze della Corte di Giustizia europea riguardanti i casi Viking, Laval e Ruffert. Come hanno sostenuto giuristi illustri l’Europa funziona oggi come integrazione negativa, attraverso la Corte di Giustizia, decostruendo i diritti sociali nazionali. Succede nel campo del diritto la stessa cosa che accade per la democrazia. Si tratta quindi di promuovere un processo contrario: un’integrazione positiva del diritto, raccogliendo il meglio di ciò che è stato prodotto nei singoli paesi, basandosi sul principio della costituzionalizzazione della persona.

In questo quadro vanno riaffrontate le questioni di genere.

L’autodeterminazione delle persone e la questione del genere.

Sebbene l’Italia presenti storicamente asimmetrie di genere nettamente peggiori del resto d’Europa tanto nella condizione materiale delledonne(per tasso di occupazione, differenze retributive, incidenza della precarietà, diversità di trattamento nei luoghi di lavoro), quanto nel dominio maschile che ancora segna lo spazio pubblico, la pesante regressione culturale determinata dal ventennio berlusconiano e le politiche di attacco al welfare, conseguenti all’austerity, hanno ovunque peggiorato la loro condizione. Nel Mezzogiorno d’Italia ormai si può parlare di discriminazione di genere nel mercato del lavoro, perché con le retribuzioni così basse, alle donne conviene più sopperire all’assenza di servizi sociali stando in famiglia che cercare lavoro. Non solo quindi bisogna superare, particolarmente in Italia, i tratti familistici della costituzione materiale del welfare state, ma riprendere una lotta per favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, visto che il tasso di occupazione femminile è molto lontano dagli obiettivi posti a Lisbona.

Per questo il contrasto all’austerità è un impegno generale contro l’imbarbarimento delle relazioni sociali, e tanto più un obiettivo che vede protagoniste le donne per contrastare la regressione inaccettabile che viene loro prospettata. Quella che in Italia ha colpito le donne in modo particolare con la controriforma delle pensioni Fornero che le impedisce comunque di andare inpensione prima dei 67 anni, perché una vita lavorativa passata fra aspettative non retribuite, part time, periodi più lunghi di attesa per entrare nel lavoro stabile e rientrarvi dopo le gravidanze, non permetterà loro di cumulare i 41 anni e 6 mesi utili alla pensione anticipata ( oggi solo il 2% delle pensionate del settore privato ha più di 35 anni di versamenti).

O quella che in Grecia, a causa dello smantellamento della sanità pubblica, ha privato molte donne dell’assistenza medica al parto e dove un taglio cesareo costa più o meno tre salari minimi.

La regressione sul terreno della condizione materiale connessa alla riduzione dei servizi e della responsabilità pubblica nella sfera della riproduzione sociale, si accompagna ad un attacco sia aidiritti riproduttivi che all’aborto, come nel caso della Spagna, alla riproposizione di orientamenti conservatori ed autoritari sui diritti delle persone LGBTQ. Cioè a dire ad un attacco all’autodeterminazione. Autodeterminarsi, infatti, non può che presupporre la trasformazione sia delle modalità del produrre e del riprodurre, sia degli stereotipi culturali imposti da una dominazione autoritaria che ha radici profonde nella società e ne modella le credenze e gli orizzonti di senso.

Per questo rilanciamo la lotta per l’autodeterminazione delle persone in tutta Europa. L’eterogeneità dei diritti delle persone nei diversi stati dimostra che questi sono dovuti più alla contaminazione e alla forza delle lotte che ad una capacità di incidere delle risoluzioni europee, recepite spesso in modo da anestetizzare gli avanzamenti proposti.

E’ importante conquistare pienamente la facoltà dei cittadini e cittadine europei – e di tutti e tutte coloro che abitano nell’Unione Europea – di determinare non solo se e quando avere un fglio, ma anche se e come essere maschi e femmine. Per rafforzare questa facoltà di decidere di sé e per sé molte leggi posso essere messe in campo. Partendo dall’assoluta parità di accesso al matrimonio, adozione e fliazione a qualunque cittadino/a a prescindere dal proprio orientamento sessuale.

Ma non è solo il campo delle leggi, ma quello ben più ampio delle norme ad essere il terreno di battaglia sulle questioni di genere. Non si tratta di rivendicare solo norme antidiscriminatorie ma di condurre un lavoro sulle culture e le pratiche politiche attualmente esistenti e ancora prevalenti (fondati sul pregiudizio secondo il quale le donne sono ancora considerate come il « secondo sesso » e su un’asimmetria di potere fra sessi che impedisce alle relazioni umane di uscire dalla « preistoria » ), a partire dalla rimessa in discussione della “ruolizzazione” del femminile e del maschile.

In questa direzione, crediamo che la genitorialità sia oggi un terreno di confronto politico: il lavoro di cura all’interno della famiglia deve essere redistribuito. La paternità e la maternità devono essere garantite a tutti e a tutte a prescindere dalle condizioni lavorative e i congedi per paternità devono essere obbligatori e consistenti. Dobbiamo garantire a ciascuna/o non solo l’accesso gratuito ai migliori mezzi che la medicina mette a disposizione, ma anche tutele economiche per ogni genitore, in modo che il diritto alla fliazione diventi concreto ed esigibile.

Allo stesso modo ribadiamo il diritto di ciascuna/o di scegliere liberamente se si vuole essere madre o padre, perché rifutiamo che la genitorialità debba essere un destino.

La presenza di leggi, norme e trattamenti diversi nei paesi europei rispetto a tutti questi temi è il frutto di differenze storiche, culturali, sociali e politiche le quali non possono essere aggredite solo con misure legislative unifcanti, ma su cui bisogna agire, nel rispetto di una giusta riconoscimento delle differenze – che non può però trasformarsi in diseguaglianza e minorità di diritti – affnché il diritto ad avere diritti sia affermato concretamente in ogni angolo d’Europa .

L’Europa e il Mediterraneo

Il Mediterraneo può e deve rovesciare la condizione di subordinazione in cui è stato posto e diventare elemento di rilancio di un’altra Europa.
La sua sponda meridionale è attraversata da processi diversi, contradditori, ma che almeno al loro inizio hanno assunto aspetti liberatori di una quantità enorme di popolazioni. Sono infatti state chiamate le primavere arabe. L’Europa, mentre vedeva erodere al suo interno gli spazi di democrazia reale, colpevolmente o scientemente non era in grado o non voleva cogliere la portata della crisi politica in quei paesi, sintomo ancor più evidente del fallimento del processo di Barcellona e di partenariato euromediterraneo. Se guardiamo poi al modello di sviluppo, il neoliberismo e la fnanziarizzazione sono facce della stessa medaglia, che in termini euromediterranei si è tradotta in accordi di commercio ed investimento mirati quasi esclusivamente ad aprire i mercati di manodopera a basso costo per le imprese europee in delocalizzazione; ad accedere a settori chiave; ad assicurare l’accesso a fonti energetiche così necessarie per alimentare un modello di sviluppo ad alto impatto ambientale.

Bisogna sostituire allo spazio dallo “stato di eccezione”, quale è adesso quello del bacino sud del Mediterraneo, la costruzione di uno spazio comune dei popoli di ambedue le sponde, andando oltre lo status-quo, ancora una volta riaffermato in maniera compulsiva dall’Unione Europea all’indomani delle rivolte di Tunisi e Piazza Tahrir.

In quest’ottica il nuovo Parlamento Europeo dovrà farsi carico di svolgere un’inchiesta ed una valutazione delle relazioni tra Unione Europea e paesi del Mediterraneo, avvalendosi del contributo dei movimenti e delle organizzazioni sociali delle due sponde che faccia luce su corresponsabilità politiche, violazioni dei diritti umani, sociali, ambientali, ed economici causati dalle politiche di partenariato, commerciali, di sicurezza ed investimenti privati dell’Unione Europea nel suo Sud e nell’altra riva del Mediterraneo. A questo può aggiungersi la proposta di una Conferenza Euromediterranea, una sorta di una “conferenza di Helsinki” per il Mediterraneo.

L’Europa e il mondo

Più in generale, questa Europa appare del tutto imbelle nella sua politica estera, proprio perché è un progetto politico incompiuto. Non parla ad una sola voce, basti pensare ai casi di Libia e Siria. E più recentemente alla vicenda ucraina, ove le responsabilità europee dirette e indirette sono pesanti. La fgura dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, istituita nel 2009 non ha certo colmato questo vuoto. Da una parte manca una visione strategica dell’Unione ferma alla dottrina Solana, la European Security Strategy che a suo tempo creò non pochi mal di testa nella Washington neocon, vista la propensione alla prevenzione politica dei conftti in tempi di guerra preventiva. Ma spesso l’approccio strategico è determinato dagli interessi dell’industria militare, come dimostrato nella recente discussione in seno al Consiglio Europeo del dicembre scorso. Dall’altra, prevale un approccio intergovernativo alle questioni extraeuropee, con variabili combinazioni di politiche nazionali di potenza o comunque di influenza. Tra queste si distinguono specialmente quelle delle antiche potenze imperiali (Gran Bretagna e Francia), cui si aggiungono le ambizioni dell’Italia come media potenza militare, gli interessi economici perseguiti dalla politica di Berlino verso lo spazio dell’Europa centro-orientale ex-socialista (dentro e fuori l’Unione), nonché le concorrenti e attive gelosie polacche. Il nucleo duro, quello economico-fnanziario di Francoforte e Berlino, insiste nelle sue velleità di conquistare i mercati dell’ex Europa Orientale, e mettere alla frusta i paesi del suo Sud, in virtù di un patto contratto a suo tempo con Parigi. Scelta scellerata, come dimostrarono il naufragio dell’Union por le Mediterranée di Sarkozy e la fallimentare politica francese nel Maghreb e non solo.

E’ quindi necessario nell’immediato dotarsi degli strumenti atti a perseguire una politica estera comune quali ad esempio un forte corpo diplomatico europeo, ma soprattutto vanno completamente ripensate le modalità con le quali l’Europa si relaziona con il resto del mondo. A partire dalle aree geografche più vicine quali il Mediterraneo, i Balcani, la Russia. Potenze e blocchi emergenti, quali l’America Latina ormai rivendicano verso l’Unione Europea il proprio diritto sovrano di imporre regole sociali ed ambientali e di trattare a pari livello. Oltre ad un nuovo rapporto tra paesi del Mediterraneo e dell’America Latina e dell’Africa l’Unione Europea dovrà quindi rivedere profondamente le sue relazioni con gli Stati Uniti d’America a partire dall’opposizione al Partenariato Transatlantico per gli Investimenti ed il commercio (Ttip) di cui abbiamo già detto.

Per quanto riguarda l’Africa, la UE dovrà impegnarsi per contribuire alla soluzione pacifca e diplomatica dei conflitti, nel Sahel, come nei Grandi Laghi, ed in particolare nel Corno d’Africa oltre che in Medio Oriente, in particolare in Palestina e Siria. Ciò comporta, tra l’altro e in primo luogo, un serio e critico riesame dei rapporti con potenze regionali quali l’Arabia Saudita e Israele, la cui influenza su tali conflitti è stata negativa nel recente passato, così come lo sono state molte azioni intraprese dai maggiori paesi dell’Unione, insieme con gli USA, entro un quadro di acritica e spesso non chiara condivisione di posizioni e di strategie con quei governi o regimi.

L’Unione europea deve svolgere un ruolo centrale nella cooperazione internazionale allo sviluppo, rilanciando un approccio fondato sui diritti fondamentali, sul partenariato ed il protagonismo diretto dei nuovi soggetti della cooperazione e non sul sostegno al settore privato ed ai partenariati pubblico-privati.

L’Europa come forza di pace

L’Europa non ha ancora sviluppato una sua reale Politica Estera e di Difesa per ragioni storiche (basti pensare al grande numero di basi statunitensi ancora ospitate sul territorio europeo) e per mancanza di autorevolezza e unità politica. I paesi più forti nella Ue, o che si sentono tali, quali Germania, Francia e Inghilterra tendono a costruire un loro sistema di relazioni economiche, fnanziarie e militari che non intendono mettere in comune; dal canto suo l’Italia non è da meno con il suo attivo presenzialismo militare in tragiche situazioni di conflitto di cui favorisce di fatto la cronicizzazione, dovuta alle politiche ineffcaci o negative nel cui quadro esso si inserisce.

Ma soprattutto in ambito europeo ha pesato e ancora pesa enormemente la presenza della NATO, che ha sempre svolto un ruolo importante per orientare e determinare il coordinamento della politica estera e di difesa dei Paesi europei. Di fatto la Nato ha rappresentato un potente strumento ideologico e pratico di surroga/supplenza di un’autonoma politica europea. La Nato ha determinato i modi del rapporto dell’Europa con il suo lato orientale, dopo la fne dell’Unione sovietica e lo sbriciolamento del sistema delle ex Repubbliche legate al Cremlino. Lo stesso Henry Kissinger ha recentemente, in occasione della crisi ucraina, apertamente criticato la politica di annessione alla Nato dei paesi dell’est europeo. L’idea di “un ordine stabile e giusto in Europa” affdato alla Nato e all’esclusiva alleanza con gli Stati Uniti ha una storia antica (Rapporto Pierre Hermel 1967) e continua a svolgere un ruolo fondamentale.

Questo stato di cose non può continuare. L’Europa può e deve promuovere un processo di superamento della Nato, la cui persistenza come strumento particolare ed esclusivo di sicurezza appare sempre meno giustifcabile quasi un quarto di secolo dopo la fne della divisione dell’Europa e del mondo in blocchi contrapposti, mentre rischia proprio di suscitare nuovamente e in nuove forme una tale pericolosissima contrapposizione. All’interno dei suoi attuali confni e nel mondo, l’Europa deve esigere il disarmo nucleare, una drastica riduzione di ogni forma di armamento convenzionale e delle spese militari, misure severe per la limitazione e il controllo del commercio delle armi, la conversione dell’industria bellica

Per la sicurezza europea non c’è alcun bisogno di costruire un nuovo esercito europeo, fonte di nuove spese (basti pensare agli F35 il cui acquisto da parte dell’Italia vogliamo bloccare), ma soprattutto di una visione militarista che lo qualifcherebbe come il braccio armato della “Fortezza Europa”.

Si può procedere all’integrazione degli eserciti nazionali, con un loro snellimento e una consistente riduzione di spesa, che possono diventare un corpo capace di intervenire in aree a rischio con i criteri e gli strumenti della prevenzione pacifca, della tutela dei diritti umani, della gestione politica dei conflitti, sempre e solo sotto l’egida e la legittimazione delle Nazioni Unite. Accanto a questi possono agire corpi civili di pace, costituiti anche su base volontaria.

La sicurezza europea, come dei suoi cittadini, comporta una lotta senza quartiere alla grande criminalità organizzata, al traffco di armi, preziosi, stupefacenti (cui è funzionale la liberalizzazione dell’uso delle droghe leggere) e alle nuove forme in cui si organizza l’economia criminale, in stretto rapporto con la fnanziarizzazione del mondo economico.

La dimensione internazionale della Mafia e delle sue molteplici varianti, delle organizzazioni criminose costruite sulla base di affliazioni segrete hanno invaso il mondo. Sono tra le prime ad avere capito le leggi della globalizzazione. E’ contro queste che va rivolta l’azione dei servizi di intelligence e di polizia. Presso il Parlamento europeo si è costituita una commissione (la Crim) con il compito di mettere ordine nelle legislazioni degli Stati membri per giungere alla prima normativa comune per il contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione. E’ un passo avanti che va sostenuto e incrementato. Il Parlamento di Strasburgo ha varato un Rapporto contro la criminalità organizzata e la corruzione, che rappresenta il primo concreto piano d’azione dell’Ue per contrastare questi fenomeni a livello transnazionale e per superare quelle barriere legislative anche grazie alle quali, purtroppo, le mafe hanno potuto alimentare il proprio immenso giro di affari. Per esempio, il rapporto introduce il reato di associazione mafosa a livello Ue, un reato sconosciuto fnora alla maggior parte dei paesi europei.

Il Parlamento ha varato anche la direttiva sulla confsca dei beni che sono provento di reato. La direttiva dovrebbe essere formalmente approvata dal Consiglio nelle prossime settimane e introduce per la prima volta un testo unico europeo in tema di sequestro dei beni della criminalità organizzata. La necessità di leggi transnazionali per combattere il crimine organizzato è nota da tempo. E uno degli strumenti più effcaci è proprio quello della confsca dei beni. Secondo la direttiva approvata a Strasburgo, i beni potranno essere confscati a seguito di una condanna penale defnitiva, ma anche nel caso di procedimenti che non possono giungere a conclusione.

Le nuove norme consentiranno agli Stati membri di confscare beni ottenuti mediante attività criminali, tra cui ad esempio corruzione, partecipazione a un’organizzazione criminale, pornografa infantile o criminalità informatica. Secondo il testo, i 28 stati membri dovrebbero adottare misure che consentano l’utilizzo dei beni confscati per interesse pubblico e ne incoraggino il riutilizzo sociale. Oggi, meno dell’1% dei proventi di reato in Europa sono confscati.

Il lavoro fatto finora al Parlamento, però, non basta. Il rapporto sulla criminalità organizzata, per diventare operativo, deve ancora passare dalle forche caudine di Commissione e Consiglio. E la stessa direttiva sulla confsca va migliorata (purtroppo molte delle indicazioni del Parlamento sono state stralciate dagli stati membri). Il nostro impegno è quindi pieno per ribadire ancora una volta che senza una lotta alla mafa realmente globale, oltre che europea, la criminalità organizzata continuerà a proliferare in tutta l’Ue.

Ecco il nostro programma di obiettivi concreti per una Europa di pace, di solidarietà, di socialità, di civiltà. Un’Europa di nuova generazione per le nuove generazioni. Ai soliti conservatori finti realisti che ci diranno: ma è un’utopia! Rispondiamo: perché no?. Ma, come dice Zygmunt Bauman, è un’utopia attiva, capace di muovere idee, persone, movimenti, passioni per cambiare l’ordine di cose esistenti. Per questo abbiamo costruito la lista “L’altra Europa per Tsipras”.

Roma, 15 aprile 2014, a cura del gruppo di programma del Comitato Operativo Nazionale della lista “L’altra Europa per Tsipras”

Risposta a Green Italia

Ringraziamo Green Italia di preoccuparsi di sapere cosa pensa la lista Tsipras sulle dichiarazioni di Vendola: http://www.greenitalia.org/vendola-chiede-lo-stop-per-le-rinnovabili-esultano-le-lobbies-fossili-sara-questa-la-posizione-della-lista-tsipras/

Come ecologiste/i con L’Altra Europa  ribadiamo la centralità della conversione ecologica nel suo complesso per un futuro sostenibile. Questa dovrebbe incentivare politiche di risparmio energetico e sviluppo delle energie rinnovabili in modo equilibrato tenendo conto della sostenibilità ecologica (paesaggistica), economica e sociale dei vari interventi. E’ curioso che sia Vendola a dire basta dopo anni di sviluppo caotico e incontrollato nella sua regione, oggi  al centro di inchieste giornalistiche. Come è curioso che oggi sia ad attaccare Vendola chi, fino a ieri, lo reputava il salvatore della sinistra e dell’ecologismo in Italia. Stando alle parole di Lucia Navone, autrice de “Il sole, le ali e la civetta”: “Solo oggi la Regione Puglia chiede al Governo di rivedere questi piani perché il territorio ha superato la propria capacità di carico. È una regione nel caos, dove non esiste un registro ufficiale degli impianti e dove fondi di investimento e società estere, perlopiù cinesi, tedesche e spagnole, hanno realizzato impianti grazie ai generosi incentivi italiani.”

D’altro canto sembra un po’ tardiva la preoccupazione di Vendola, dato che la politica verso le fonti rinnovaibili in Italia oggi è deleteria ed ha distrutto con metodi ai limiti dell’illegalità uno dei pochi settori che potevano aiutarci ad un’atterraggio morbido per uscire da questa crisi.

In ultima analisi, tralasciando polemiche inutili, ci sentiamo di condividere che È fortemente necessario chiudere la porta alla speculazione, al saccheggio del territorio, al consumo selvaggio di suolo di pregio, ma alle rinnovabili no. La porta va chiusa ai furbetti e spalancata a chi le rinnovabili sa  farle bene, valorizzando risorse e risolvendo problemi del  territorio, anche investendo sull’adeguamento di una obsoleta rete elettrica. Perché il futuro o sarà rinnovabile o, semplicemente, non sarà.”

Per Ecologiste/i con L’Altra Europa

 

Roberta Radich

Pietro Del Zanna

 

Risposta di Monica Frassoni

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la risposta di Monica.

 

Carissimi,
ho già avuto modo di manifestare chiaramente come la pensi sui temi che voi ponete. E ho già anche avuto modo di sottolineare che se mai ci fosse un risultato positivo della Lista Tsipras che rendesse possibile che alcuni eletti vadano nel gruppo verde, é chiaro che ne sarei felice.
Ma é anche altrettanto chiaro che da presidente di una famiglia politica europea molto seria, non posso certo, senza avere mai peraltro ricevuto una richiesta in tal senso, sostenere un’altra lista che é nata non sulla base di un progetto condiviso di un’Altra Europa, ma sulla base del sostegno al leader della sinistra greca e ai suoi punti per la Grecia (poi trasformati in punti europei) che per di più non siederà neppure al PE. E sulla base di alcune considerazioni grillesche su chi doveva essere in quella lista e chi no ( e non parlo per interesse personale, ma mi sono stufata di sentire dire che tutti i politici sono uguali. Non é vero.)
Il collante di quella lista é l’esempio della ricomposizione della sinistra greca e la lotta contro l’austerità, con una venatura da lotta di Davide contro Golia, ovvero Sud contro Nord. Non é il nostro progetto; la ns opposizione all’austerità non é del Sud contro il Nord. vale per tutta l’Europa. E tiene conto del fatto che Grecia e Italia sono paesi profondamente corrotti e da cambiare e che non tutta la colpa é della Merkel.
E comunque, non c’é mai stata neppure la possibilità di avviare una conversazione, perché come sapete e a differenza di cio’ che é avvenuto con la vostra missiva, noi non abbiamo mai ricevuto alcuna risposta alla lettera aperta che avevamo mandato da Bruxelles immediatamente dopo la fine del processo delle primarie.
Come tutti sapete, io, anche scontrandomi duramente con altri ecologisti, ho condiviso, anche prima di alcuni di voi, la necessità di aggregare e aggregarsi a forze positive e innovative della sinistra. Ma forse oggi queste forze non sono poi cosi aperte e innovative e comunque é necessario prima creare un rapporto di forza “verde” superando la storia dei verdi Sole che ride. L’evoluzione della lista Tsipras é ahimé una prova ulteriore della mancanza di attenzione per una elaborazione e condivisione seria delle tesi ecologiste, nel metodo oltre che nel contenuto e dell’inevitabile forza del richiamo della foresta di una sinistra sinistra. Quindi io sto col progetto di Green Italia. Che, dopo le elezioni europee, spero diventerà attraente anche per voi.
Insomma, vorrei veramente che si tenesse conto che sono i promotori della Lista Tsipras che non hanno considerato opportuno coinvolgere i Verdi europei (e neppure gli ecolo italiani) in questa avventura. E questo é legittimo, come é legittimo per alcuni ecologisti di sostenere questa linea. Ma é impossibile farlo per me. Ma auguro a tutti voi buon vento e una campagna positiva.
un caro saluto
Monica

Lettera aperta a Monica Frassoni

Cara Monica, 
abbiamo letto  e sostanzialmente condiviso le tue riflessioni apparse su http://www.huffingtonpost.it/monica-frassoni/. 
 Condividiamo moltissimo la tua ultima affermazione: “Ma proprio le elezioni di maggio potranno essere l’occasione giusta per porre un freno al dilagare dei populismi e dare un segnale forte per una trasformazione ecologica dell’economia e della società, per un’Europa più aperta e più democratica.”
 Quello che francamente ci sfugge, ed un po’ disorienta, è come il corrispondente degli elettori verdi francesi possano farlo in Italia. Alle prossime elezioni europee l’elettorato ecologista sarà, come da molto tempo accade, diviso in mille rivoli. Ecodem con Renzi, M5S, L’Altra Europa con Tsipras e, apprendiamo oggi,  avete deciso di presentare una lista Verdi-Green Italia, per le prossime elezioni europee (pur sapendo, e questo è un fatto grave, che non avete alcuna possibilità di raggiungere lo sbarramento).

 

Quindi come rispondere concretamente alla tua domanda come fare per “porre un freno al dilagare dei populismi e dare un segnale forte per una trasformazione ecologica dell’economia e della società, per un’Europa più aperta e più democratica”?

 



Come sai noi una scelta l’abbiamo fatta. Ed è quella che in modo, perdonaci, un po’ superficiale liquidi in un tuo scritto precedente. La lista L’Altra Europa con Tsipras lungi dall’essere “un’occasione perduta” (al limite lo potrà diventare) è l’unica possibilità che abbiamo in concreto per trasformare in realtà il tuo auspicio. 

Non comprendiamo come non si possano non vedere la quantità di ottime candidature “ecologiste”, presenti in tutte le circoscrizioni, di questa lista, ma soprattutto, e questo è veramente il nostro cruccio, come non si possa non vedere in questo ennesimo tentativo, la possibilità di dare risposta ad intuizioni che Alexander Langer, che tu conosci bene, in disperante (e disperata) solitudine, ebbe già 20-30 anni or sono.

 Che ci sia l’esigenza di “una formazione meno partitica, meno ideologica, meno verticistica e meno targata “di sinistra” ” Langer lo diceva nel 1994, aggiungendo che “ciò non significa che bisogna correre dietro ai valori ed alle finzioni della maggioranza berlusconiana, anzi. Occorre un forte progetto etico, politico e culturale, senza integralismi ed egemonie, con la costruzione di un programma ed una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti. Bisogna far intravvedere l’alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile con i limiti della biosfera e con la giustizia, anche tra i popoli. Da molte parti si trovano oggi riserve etiche da mobilitare che non devono restare confinate nelle ‘chiese’, e tantomeno nelle sagrestie di schieramenti ed ideologie. Ma forse bisogna superare l’equivoco del ‘progressismo’: l’illusione del ‘progresso’ e dello ‘sviluppo’ alla fin fine viene assai meglio agitata da Berlusconi.”



Tu ci dirai che la lista Tsipras è una lista della sinistra radicale (come viene comunemente affermato) e che Tsipras stesso è leader di Siriza (la sinistra radicale greca). 
Se per Tsipras e Siriza questo è inconfutabile, per quanto riguarda la lista “L’Altra Europa con Tsipras” ci permettiamo di intravedervi un laboratorio che va oltre ed esattamente nella direzione “sognata” da Alex.
Gli, e soprattutto La, intellettuali/e, che hanno promosso l’appello hanno dato “uno spazio teorico-politico” al progetto in cui certa sinistra ha sicuramente un ruolo fondamentale e fondante, ma che inevitabilmente rompe e travalica certi confini coinvolgendo un fare civile e civico, più che ideologismi astratti, una visione fortemente europeista (non sempre patrimonio della sinistra) ed, ultima, ma non ultima, la consapevolezza che non c’è uscita dalle politiche di rigore e da questa crisi senza una conversione ecologica dell’economia e della società nel suo complesso.

I punti programmatici della Lista (i tre obiettivi e i 10 punti che sostanziano il programma futuro) sono condivisibili e equilibrati nella loro determinata progettualità verso un’Europa politica. Non paventa una suicida uscita dall’Euro ma prospetta un’Europa antiliberista, ecologista, pacifista e democratica. Quali basi migliori per cominciare a costruire una direzione diversa?

La Conversione ecologica è il secondo punto programmatico della Lista: l’intervento di chi può sostanziare questo obiettivo è fondamentale e cruciale. Sottrarre la presenza di chi può farlo risulta francamente incomprensibile, in un momento storico dove non possiamo più permetterci (e quando mai in realtà sono stati utili?) dei distinguo basati sulla preservazione delle identità più che sugli obiettivi sostanziali.

Questo è un progetto politico ancora tutto da costruire: chi si sottrae lascia spazio a chi dice di non volerlo lasciare.

Ancora due osservazioni.



Come può non vedere una federalista europea come te, il fondamentale contributo che Barbara Spinelli sta portando al progetto? 



E sempre tornando a Langer, che sia proprio dal sud dell’Europa, dall’Europa Mediterranea che tutto prende avvio, non ti ricorda niente del suo impegno?



E’ vero ci sono i comunisti e la sinistra radicale. Ma i Verdi non hanno mai avuto problemi in passato a farvi alleanze con accordi di vertice (Sinistra Arcobaleno, Sinistra&Libertà) che nulla avevano a che vedere con quella “costruzione di un programma ed una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti” che Alex auspicava.  
E non era sempre Langer ad invitare i rossi ad essere più rossi, i verdi più verdi, i cristiani più cristiani sapendo che andando alla radice ci possiamo più che incontrare? Ad invitare ciascuno a non arrogarsi il diritto di indossare da solo la bandiera del cambiamento? E soprattutto ad essere sempre pronti a sciogliere vecchie appartenenze e coagularsi di volta in volta in ciò di cui vi è più bisogno? “La logica dei blocchi blocca la logica”, ce l’ha insegnato il movimento pacifista. E per coagulare sul serio percorsi ed ispirazioni diverse in uno sforzo comune (non necessariamente in un partito comune!), bisogna che prima di tutto le rigidità e gli spiriti di bandiera si attenuino e magari si dissolvano.”A.L.

 



Proviamo a farlo tutti insieme. Non è detto che l’occasione si ripresenti.

per Ecologiste/i con L’Altra Europa



Roberta Radich


Pietro Del Zanna

Lettera aperta a tutti i sostenitori

Carissima/o,

è da un po’ che non ci facciamo vivi. Inutile dire che il precipitare degli eventi e la nostra poca organizzazione non hanno aiutato. Proviamo a porre rimedio. Nel blog potete trovare tutti i documenti che hanno caratterizzato ogni singolo passaggio dalla nostra prima lettera ai garanti ad oggi. Abbiamo creduto da subito in questa sfida riconoscendoci totalmente nella necessità di un’Europa politica, ecologista e dei popoli com’era stata immaginata a Ventotene e di cui Barbara Spinelli, nel suo appello congiunto con altri garanti e Tsipras, ha ben spiegato l’urgenza.

Per questo abbiamo scritto una lettera aperta a firma di ecologiste/i in cui aderivamo a condizioni precise. A questa i garanti hanno risposto positivamente ad ogni singolo punto. E’ seguita la nostra proposta di candidature in tutte le circoscrizioni accompagnata dalla speranza che il processo democratico individuato nel regolamento fosse seguito passo passo dai garanti. Come abbiamo evidenziato su questo blog non è stato puntualmente così. Due candidate si sono ritirate e due garanti (Camilleri e Paolo Flores d’Arcais) hanno dismesso il loro ruolo. Malgrado molte domande non abbiano ottenuto risposta, in nostra piena autonomia, e di questo ci assumiamo la responsabilità, abbiamo deciso di continuare comunque il lavoro di sostegno alla lista e a due candidati inseriti: Domenico Finiguerra nel collegio Nord-Ovest e Francuccio Gesualdi nel collegio Centro. Questa scelta è stata fatta ponendo sulla bilancia i pro e i contro del processo avviato: al momento, pur sapendo che ci sono molti aspetti sui quali c’è molto da lavorare, crediamo ci siano le possibilità per avviare un percorso nuovo, dove l’ecologismo declinato al femminile e al maschile, può avere uno spazio centrale.

Non siamo al corrente se tutti voi, firmatari della prima lettera aperta, potete concordare con queste posizioni: vi chiediamo di farci sapere cosa ne pensate, per avviare un dialogo e uno scambio. Mancano ormai solo tre settimane per raggiungere in ogni Regione il numero necessario di firme alla presentazione della lista: è un obiettivo importante non solo per i contenuti che questa Lista porta ma per riavviare il meccanismo bloccato di rappresentanza in questo Paese. Ti saremo grati se vorrai dare il tuo prezioso contributo in questo delicato lavoro. Per ora non abbiamo formalizzato il sostegno a nessun altro/a candidato/a ma crediamo sarebbe importante farlo nei confronti di candidate/i che provengono dal movimento per i referendum e femminista, dai comitati locali a difesa del territorio. Vorremmo provare a costruire un maggior coinvolgimento anche in queste scelte e vi proponiamo di costituire un coordinamento politico un po’ più allargato rispetto a noi quattro promotori, con Domenico assorbito completamente dalla campagna elettorale. Si accettano, a questo proposito autocandidature. Le persone disponibili entreranno a far parte di una mailing list ristretta dove verranno discusse e prese le decisioni necessarie. Il percorso procede con potenzialità e contraddizioni.

La potenzialità è data sostanzialmente dall’elevata qualità delle candidature presentate nel loro complesso e la sostanziale marginalità dei partiti più strutturati, che pone argine a processi di autoreferenzialità che hanno distrutto tentativi passati. Ma è inutile negarci il deficit organizzativo e l’evidente mancanza di un minimo di leadership, fatto che mette a rischio il percorso per più motivi, non ultimo quello di essere etichettati come “sinistra radicale”. E’ per provare, nel nostro piccolo, a dare un contributo per riempire questo vuoto che vogliamo proporvi un minimo di organizzazione di questa area ecologista/femminista/nonviolenta.

Proponiamo come portavoce provvisori del percorso Roberta Radich e Pietro Del Zanna, da sottoporre a verifica del coordinamento politico che andremo a costruire. I rischi derivanti dall’incapacità di guida collettiva e da un’identità forte, ancora tutta da conquistare, possono essere superati se si crede che ci siano le possibilità per raggiungere il vincolo delle firme e la soglia del 4%. Gli ultimi sondaggi ci danno al 6,5% ma noi dobbiamo puntare al 10% come ha sostenuto Barbara Spinelli durante la conferenza stampa che ha varato le liste. Vediamo questo processo, come un laboratorio politico, che non si fermerà certamente con la raccolta di firme, comunque vada o con le elezioni europee. Si tratta di ricominciare a creare nuovi ambiti di partecipazione politica e aprire orizzonti di rappresentanza a tutti i livelli.

Contiamo sulla tua disponibilità.

Laura Cima

Domenico Finiguerra

Roberta Radich

Pietro Del Zanna

OBIETTIVO: 150 MILA FIRME

Raccolta firme: tutto quello che c’è da sapere

Dobbiamo raccogliere 150.000 firme (30.000 per ogni circoscrizione) necessarie per la presentazione della lista. E’ una sfida difficile, ma tutti insieme possiamo vincerla!

Scarica il vademecum con tutte le istruzioni per la raccolta firme

Si è costituito un gruppo che si occuperà della raccolta firme. Coordinato da Corrado Oddi, si avvale del lavoro di Mimma Tisba e Cinzia Di Napoli.

Contattate il referente territoriale più vicino a voi per sapere quando e dove si raccolgono le firme e come potete aiutare.

La consegna delle firme dovrà avvenire nelle singole 5 Circoscrizioni ( Nord-Ovest, Nord-Est, Italia Centrale, Italia Meridionale e Italia Insulare) tra il 15 e il 16 aprile e, quindi, la raccolta dovrà concludersi, indicativamente, nella settimana precedente, per poter poi ultimare la fase finale di controllo.

Per noi la raccolta delle firme costituisce di fatto l’apertura della campagna elettorale: è una straordinaria occasione di incontro con migliaia di persone e può diventare un veicolo fondamentale per far camminare l’idea dell’altra Europa.

In questa grande sfida, abbiamo però bisogno di tutte e di tutti: di chi può organizzare banchetti, di chi può svolgere attività di sensibilizzazione on line e off line per raggiungere l’obiettivo, di chi può diffondere la lista nei territori. Abbiamo preparato materiale che potete scaricare e usare.

I moduli, a differenza del referendum, non hanno bisogno della vidimazione del tribunale o del comune. Le operazioni per la validità delle firme sono autenticazione e certificazione.

I soggetti abilitati all’autentificazione sono: notai, giudici di pace, cancellieri e collaboratori di cancellerie delle Corti d’appello, dei tribunali e delle sezioni distaccate dei tribunali, segretari delle Procure della Repubblica, presidenti delle province, sindaci, assessori provinciali e comunali, presidenti dei consigli provinciali e comunali,  presidenti e vicepresidenti dei consigli circoscrizionali, segretari provinciali e comunali, funzionari incaricati dal presidente della provincia e dal sindaco, consiglieri provinciali e comunali che comunichino la loro disponibilità,  rispettivamente, al presidente della provincia e al sindaco. La qualifica dell’autenticatore traccia i confini geografici entro i quali può operare.

I dipendenti pubblici che possono autenticare sono funzionari ( inquadramento categoria D) che sono stati preventivamente autorizzati in forma scritta dal presidente della provincia o dal sindaco.

Inoltre, già da ora, si possono pianificare i banchetti, per quelli che si vogliono organizzare per strada è necessario procedere alla richiesta (qualche giorno prima), al Comune di OCCUPAZIONE DI SUOLO PUBBLICO indicando il giorno, l’orario, lo scopo, e la superficie di suolo occupata con il tavolo, tenendo conto che se la superficie del tavolo (o gazebo) è inferiore a 10 metri quadrati non si paga la relativa tassa. Aggiungere anche un recapito di un responsabile per la richiesta e specificare che si tratta della raccolta firme per le Elezioni europee del 25 maggio 2014 a nome della Lista “L’altra Europa con Tsipras”. Contestualmente va data comunicazione alla Questura (è sufficiente la comunicazione via fax).

In allegato, IL VADEMECUM PER LA RACCOLTA DELLE FIRME

La lista dei referenti territoriali

I materiali utili per la campagna online e offline

Per contattarci:

Mimma Tisba 392 3472833

Cinzia Di Napoli 392 3472853

Grazie e buona raccolta!

 

FRANCUCCIO GESUALDI | Perché ho accettato di candidarmi nella lista Tsipras

Francesco Gesualdi, fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, racconta la decisione di impegnarsi alle elezioni europee. “Altre volte mi era stato chiesto di presentarmi candidato, ma non avevo mai accettato per preservare la mia indipendenza -dice- ma questa volta è stato diverso. Non solo per i connotati della lista Tsipras, nata dal basso, senza mezzi né padrini, al di fuori di ogni logica di potere. Ma soprattutto per la proposta che la lista sostiene e per la posta in gioco che l’Europa racchiude”

Abbiamo sempre considerato l’Europa un’istituzione lontana che si occupa di temi apparentemente marginali: norme commerciali, contributi all’agricoltura, rapporti con i consumatori. Certo non la politica sociale, né la salute, né la scuola, né tutto il resto che ha un impatto diretto sulla qualità delle nostre vite. Finché non è arrivato l’euro che abbiamo accolto con un misto di curiosità e di orgoglio. Curiosità per la novità che rappresentava. Orgoglio per la convinzione di entrare a far parte di una potenza economica che ci avrebbe offerto solo vantaggi.

E tuttavia la partenza non fu delle migliori, considerato che bottegai e supermercati ne approfittarono per imporci un rialzo di prezzi su beni di largo consumo. Ma i tassi di interessi scesero ai minimi storici con sollievo non solo per lo stato, perennemente indebitato, ma anche per famiglie ed imprese che potevano ottenere credito a buon mercato.

La luna di miele, però, non fu di lunga durata, almeno per medie e piccole imprese, che ben presto sentirono il fiato sul collo della concorrenza tedesca e capirono che senza altri provvedimenti di tipo fiscale, doganale, creditizio, atti a colmare le differenze, le unioni monetarie si trasformano in una ghigliottina al servizio dalle imprese più forti per decapitare quelle più deboli. Tant’è che in Italia le importazioni dalla Germania crebbero fino a un più 10%, nel 2006, con danno per le imprese nostrane.

Poi sopraggiunse la crisi mondiale e assieme ad essa l’attacco speculativo ai governi più indebitati, che invece di essere difesi dall’Europa vennero presi per il collo affinché pagassero a costo di qualsiasi sacrificio. E mentre la Grecia agonizzava sotto i colpi mortali dell’austerità, abbiamo scoperto che l’Europa è stata progettata non per promuovere i nostri diritti, bensì per difendere gli interessi dei potentati economici, primo fra tutti quello della finanza.

Non l’euro, ma l’assenza di regole

Inevitabilmente si è sviluppata una grande avversione verso questo tipo di Europa, e all’ordine del giorno si è imposta con forza la domanda “che fare?”.

La risposta di parte della popolazione è l’uscita dall’euro. Ma non tutti con la stessa motivazione. Alcuni solo per recuperare la possibilità di svalutare e riconquistare, per questa via, il vantaggio competitivo che abbiamo perduto. Dunque un obiettivo tutto interno alla logica mercantilista che mi lascia perplesso anche per la spinta nazionalista che può alimentare.

Naturalmente non sottovaluto l’esigenza dell’equilibrio commerciale con l’estero, né le pressioni esercitate dal mondo imprenditoriale pe vincere la battaglia della competitività comprimendo salari e diritti. Ma fra chi propone di recuperare competitività svalutando i salari e chi propone di recuperarla svalutando la moneta, c’è una terza via, ben più ambiziosa, che è quella di svalutare la competitività.

Non possiamo continuare a concepire l’economia come un campo di battaglia dominato dalle imprese in perenne lotta fra loro e mentre combattono riducono in poltiglia diritti, dignità, sicurezza, salute, ambiente. Esiste un’altra possibilità che è quella di sottomettere l’attività delle imprese al rispetto di regole invalicabili di tipo salariale, previdenziale, occupazionale, ambientale. Se avessimo accompagnato la globalizzazione con regole condivise a livello mondiale, non avremmo assistito al ritorno del lavoro minorile, né al proliferare di salariati con paghe al di sotto della soglia della povertà.

Strumenti nuovi per obiettivi nuovi

A livello globale la partita l’abbiamo persa, ma possiamo impegnarci per vincerla a livello europeo. Non allontanandoci fra noi, ma rafforzando il progetto di unione europea su basi totalmente diverse. La sfida è cambiare anima all’Europa, traghettarla dal credo mercantilista a quello sociale. Spingerla a farsi paladina dei diritti tramite provvedimenti che frenano l’aggressività delle imprese più forti e misure che creano uniformità salariale, fiscale, previdenziale, a livello europeo.

Dobbiamo sbarazzarci della logica della sopraffazione per sostituirla con quella della cooperazione, della programmazione, della sostenibilità. E più che puntare alla conquista dei mercati esteri dobbiamo puntare al rafforzamento dei mercati interni perché nella logica della sostenibilità le merci debbono viaggiare il meno possibile. Non ha senso mangiare patate irlandesi o indossare scarpe indonesiane. Non serve a noi e non serve all’ambiente. Le economie dovrebbero produrre in via prioritaria per la gente del luogo. Per cui, più che il ripristino di monete nazionali servirebbe l’esplosione di monete a km zero. Tante monete locali che convivono con una moneta continentale, questa potrebbe essere la via che conduce alla sostenibilità ambientale e alla stabilità occupazionale.

Meno concorrenza, più accordi

Ed oggi che la logica espansiva ci ha procurato seri danni sul piano occupazionale, dobbiamo stare attenti a non cercare la soluzione negli stessi meccanismi che hanno provocato il problema. La nostra occupazione va difesa, questo è certo, ma non a detrimento dell’occupazione degli altri. E non è certo affidandoci alla spontaneità del mercato, che possiamo sperare di raggiungere la piena occupazione a livello europeo. Troppo a lungo abbiamo confidato nelle capacità miracolistiche del mercato, per poi prendere atto dei suoi fallimenti. I problemi si risolvono con la progettazione, come d’altronde si fa in ogni impresa e in ogni famiglia.

Anche per la piena occupazione serve un piano programmatico europeo che definisca chi fa cosa e con quali risorse, avendo ben chiaro che per mantenere un certo equilibrio bisogna saper frenare i più forti e rafforzare i più deboli. Questo dovrebbe fare un’Europa a vocazione sociale: vigilare che nessuno si espanda a tal punto da danneggiare gli altri e intervenire con misure fiscali, doganali, creditizie per rendere il contesto europeo più omogeneo da un punto di vista salariale, normativo, contributivo. Se invece si incaponirà a voler fare il custode della guerra di tutti contro tutti, lasciando che i più forti sopraffacciano i più deboli, beh allora non solo scomparirà l’euro, ma la stessa Unione Europea che si trasformerà in una polveriera di odio reciproco.

Rifondare la BCE per un’altra sovranità monetaria

E mentre alcuni sostengono l’uscita dall’euro in nome della competitività, altri rivendicano il ritorno alla lira per recuperare quella sovranità monetaria che ci potrebbe permettere di risolvere il problema del debito pubblico in alternativa all’austerità. Se disponessimo di una banca centrale al servizio della collettività, invece che al servizio del sistema bancario, potremmo attivare varie procedure per liberarci del debito pubblico in maniera indolore. Dunque dobbiamo recuperare con urgenza una sovranità monetaria finalizzata alla piena occupazione e al sostegno dell’economia pubblica, tramite finanziamenti diretti allo stato. Ma la domanda è se perseguirla in maniera collettiva, come eurozona, o individualmente come Italia che si stacca dall’euro. La mia posizione è che dobbiamo fare di tutto per recuperarla come eurozona riformando la Banca Centrale Europea. Prima di tutto per una ragione strategica. Il sistema finanziario mondiale è infestato da lupi lasciati liberi di assalire qualsiasi preda facilmente braccabile, e quanto più ci isoliamo tanto più ci esponiamo al rischio di essere sbranati se compiamo scelte a loro sgradite. Molto più saggio rimanere nel branco per resistere al loro attacco e poterli respingere.

Insieme per un’Europa solidale e sostenibile

Ma la ragione più profonda per cui opto per un recupero di sovranità monetaria socialmente orientata, all’interno dell’eurozona, è di tipo politico. Per attaccamento a un precetto della scuola di Barbiana che dice: “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.”. Le conseguenze negative di questa Europa liberal-masson-speculativa (austerità, riduzione salariale, distruzione delle economie più deboli) sono un problema non solo nostro, ma anche di greci, spagnoli, portoghesi, perfino delle classi più povere tedesche.

Fuggire da soli dal carcere è individualismo. Batterci insieme per la liberazione è solidarietà. Questa Europa va riformata in profondità prima ancora che nella sua impostazione organizzativa, nella sua visione politica. Il suo centro gravitazionale non può più essere il profitto, il mercato, la concorrenza, l’espansione degli affari qualsiasi essi siano. Il fulcro dell’Europa deve essere la persona e l’ambiente in modo da promuovere forme di investimento, di produzione, di consumo, di fiscalità, di spesa pubblica, che tutelino l’interesse generale, la pace, la salute, la qualità della vita, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutti, i beni comuni, i diritti dei lavoratori, l’inclusione sociale e lavorativa, il superamento degli squilibri territoriali, le economie locali, la cooperazione internazionale, la partecipazione, la democrazia.

Nel programma della lista Tsipras ho colto questa visione. Perciò ho accettato di candidarmi: per offrire una rappresentanza a chi vuole battersi per farle strada.

DUNQUE L’EUROPA… DOMENICO FINIGUERRA

di Marco Boschini, Coordinatore dei Comuni Virtuosi

Domenico Finiguerra è uno di quei politici che non passano certo inosservati. Lasciano il segno. Non con le parole, ma con i fatti. A Cassinetta di Lugagnano (MI) dove è stato sindaco per 10 anni ha fatto scuola, dimostrando in tempi non sospetti che il territorio è un bene comune da tutelare e che gli enti locali possono vivere senza cemento, e quindi oneri di urbanizzazione. Una piccola comunità di poco meno di duemila abitanti ha dato un segnale all’Italia intera: fermare il consumo di suolo, lavorando giorno per giorno per ridurre i consumi energetici, migliorare la raccolta differenziata dei rifiuti, attivando progetti per una mobilità sostenibile era non solo necessario, ma possibile.

Dunque l’Europa. Hai scelto di candidarti, mettendoci la faccia, per un’altra Europa possibile. Quali sono i progetti concreti che hai in mente?

Il primo, e più importante. Far tornare le persone ad appassionarsi alla politica. L’unico strumento in grado di cambiare le cose, da sempre. Perché questo accada, però, occorre una forte partecipazione. Una condivisione che non lasci nelle mani di pochi il controllo del potere, la possibilità di decidere per tutti. La politica fatta assieme a partire dalle comunità e dai territori, rovesciando il rapporto rispetto a come è stato finora.

Progetto senz’altro ambizioso, visto il clima che si respira soprattutto in Italia. L’Europa, poi, è vista come un’entità astratta, un soggetto lontano dalla quotidianità delle persone.

E’ essenziale capire e far capire che invece l’Europa condiziona già oggi pesantemente le nostre vite, attraverso scelte (regolamenti, normative, trattati) che determinano la linea dei governi nazionali in tema di politiche economiche, di welfare, di ambiente, agricoltura, ricerca… La nostra campagna elettorale sarà incentrata su questo messaggio. Non andiamo in Europa ad occupare poltrone ma a portare un messaggio chiaro e netto. Questo modello di sviluppo ha fallito la sua missione ed è arrivato il momento di cambiare paradigma. Servono leggi, risorse, incentivi che accompagnino un cambiamento radicale non più rinviabile. In Europa vogliamo portare la moltitudine silenziosa di cittadini, comitati, movimenti, che in questi anni hanno costruito, concretamente, la possibilità di un’Europa diversa. Inclusiva e sostenibile, sobria e solidale. L’Altra Europa con Tsipras ha tre presupposti fondamentali: uscita dall’austerità, creazione di lavoro attraverso la conversione industriale e promozione dei diritti e della convivenza sociale, e sono tre pesupposti determinanti per cambiare direzione in Europa a avvicinarla alle popolazioni e ai problemi della gente.

Un nervo scoperto della società italiana, soprattutto se paragonato ad alcuni paesi europei, è l’assenza di parità di genere. Proprio in questi giorni il dibattito politico nostrano sembra incartarsi sul tema della legge elettorale. Qual è la tua posizione?

Infatti, questo tema, come abbiamo sottolineato nell’appello fatto come Ecologiste/i, si sta rivelando in questi giorni cruciale. Penso, e con me le donne e gli uomini che hanno promosso la partecipazione a questa lista, che si debba andare al cuore delle logiche di dominio che hanno caratterizzato tanto questo modello di sviluppo al tramonto, quanto le dinamiche dei partiti politici così come conosciuti fino ad oggi. Queste logiche permeano i rapporti economici, politici, relazionali, nonché la relazione dell’essere umano con l’ambiente e l’eco-sistema ma, in primis, la relazione tra uomo e donna. Da questo rapporto di dominio primario si deve partire.

Non è ammissibile, tra le molte cose inaccettabili di questa legge elettorale, quanto sta avvenendo con l’Italicum. Il 50/50, deve servire per instaurare un rapporto circolare tra legislazione e mondo sociale e culturale: è sano quando un paese promuove scatti di civiltà attraverso la sua legislazione e quando la società civile e il cambiamento culturale diventano motore per nuove e più avanzate leggi. Oggi invece è tagliata alla radice questa comunicazione, soprattutto in tema di genere.

In tutta Europa le donne sono considerate una risorsa, in Italia non solo non lo sono, ma sono ricacciate indietro a tutti i livelli: nella politica, lo stiamo vedendo, nel lavoro dove le percentuali del lavoro femminile sono bassissime, nella mancanza di servizi che ne sostengano lavoro, diritto alla salute, alla scelta rispetto alla propria maternità. Questo è un punto veramente anti-storico: la legge 194 è stata praticamente annullata nei fatti e la procreazione assistita resa impossibile in Italia. L’inerzia legislativa e di governo si traduce in un forte malessere nel rapporto tra i due sessi: la violenza domestica e i femminicidi ne sono l’indice più chiaro. Si pensi che a fronte di una diminuzione generale degli omicidi, questi sono invece aumentati moltissimo. Insomma questo squilibrio rispetto all’Europa e nell’Europa va affrontato seriamente. 

Vieni da un’esperienza di politica attiva a livello locale. Non trovi che le istituzioni nostrane siano ormai costantemente sotto attacco da più parti? E come fare per invertire la rotta?

In Italia veniamo da un ventennio in cui, alla narrazione del mito del federalismo e della maggiore autonomia (economica, decisionale) dei territori, corrispondeva uno svuotamento nei fatti degli enti locali: meno trasferimenti dallo Stato, sottrazione di servizi svenduti al mercato (acqua, gas, rifiuti…), vincoli che hanno reso quasi impossibile la vita per un sindaco. Ti faccio l’esempio del Patto di stabilità. L’Europa fissa i confini in termini di programmazione, risultati e azioni di risanamento all’interno dei quali i Paesi membri possono muoversi autonomamente. Noi abbiamo scelto di uccidere i comuni perché qualcuno ha capito che le esperienze virtuose sperimentate in giro per l’Italia diventavano potenzialmente pericolose. Da qui dobbiamo invece ripartire. Mostrare il bello, ciò che funziona, nelle istituzioni e nel mondo delle imprese sostenibili, nella ricerca e nelle comunità locali. E’ a quel modello (che crea posti di lavoro, riduce i consumi e combatte l’inquinamento) che l’Europa deve saper guardare, con uno sguardo totalmente nuovo ai territori dove stanno avvenendo sperimentazioni di nuove forme economiche e di promozione delle comunità che devono poter trovare nelle istituzioni un alleato e non un nemico. C’è molto lavoro da fare, ci daremo delle priorità e cominceremo a lavorare seriamente.

Alle/i firmatarie/i della lettera ai garanti “Per un’ altra Europa” 7 marzo 2014

Alle/i firmatarie/i della lettera ai garanti “Per un’ altra Europa”

7 marzo 2014 alle ore 9.07

Care/i,

il 5 Marzo, a 143 anni esatti dalla nascita di Rosa Luxemburg, sono state presentate le liste elettorali e il simbolo de “L’altra Europa con Tsipras”.

Dei nomi che abbiamo presentato (2 uomini e 4 donne) sono stati accettati solo i due nomi maschili.

Ovviamente è difficile non esprimere disappunto per quanto avvenuto. Ci permettiamo di evidenziare che le candidature sono state selezionate da un gruppo interamente maschile e che l’unica donna presente, con tutta la sua autorevolezza, e solo nella parte decisionale finale, è stata Barbara Spinelli.

Siamo ben consapevoli che le liste sono state costruite a parità numerica di genere e questo è un grande risultato. Ma riteniamo che non si sia compreso il segnale politico delle nostre proposte femminili: donne che lavorano, alla base, non note al grande pubblico, ma le cui candidature sarebbero state colte come segnale importante da tanta parte del mondo delle donne impegnate nei movimenti e femminista. La lettera aperta sottolineava la connessione tra promozione della diversità di genere e cambiamenti dei modelli di sviluppo, a livello economico, politico e sociale. Il fatto che di un appello di questo genere, sottoscritto da tante rappresentanti di movimenti di donne, non sia stata considerata nemmeno una delle donne, risulta difficile da comprendere e da far accettare.

Ma sarebbe troppo facile infierire sui limiti organizzativi e di procedura che, come sempre accade, ha creato scontenti un po’ in tutti i segmenti del puzzle. D’altro canto è per i gravi limiti dimostrati in passato dai partiti strutturati che siamo arrivati a questo punto, costringendo Barbara Spinelli, una intellettuale, (restia a farlo) ad un ruolo di leadership politica.

Malgrado questo segnale, analizzando le liste non possiamo negare che il risultato sia complessivamente più che positivo e ben augurante, sperando che dal nuovo possa nascere ulteriore nuovo, anche nel senso da noi indicato.

Non ci fermerà certo questo, nella nostra volontà di costruire e non di demolire, come troppe volte è stato fatto in passato.

Salutiamo con estremo piacere la candidatura di Domenico Finiguerra e di Francuccio Gesualdi per i quali, tutti, non risparmieremo energie nella campagna elettorale. Ci adopereremo da subito ad individuare i/le candidati/e, nelle cinque circoscrizioni, a noi più affini (che fortunatamente non mancano), capaci di imprimere una accelerazione sul piano della necessaria conversione ecologica basata su relazioni paritarie e feconde (a partire da quella tra i due generi) e sui quali far convergere le nostre preferenze.

Noi crediamo che questa lista sia un segnale importante che travalica i confini dell’Italia stessa. E’ il segno di una sinistra lungimirante che da Rosa Luxemburg arriva ad Alexander Langer, con capacità di leggere i fenomeni in corso in questa Europa e nel Mondo. Una sinistra che riesce a superare se stessa e i propri confini lasciandosi attraversare dalle contraddizioni del nostro tempo ed offrendo a tutte le persone disorientate e travolte dalla crisi in atto, una capacità di lettura e soluzioni concrete che partono anche dal proprio agire quotidiano.

Va creata una nuova classe politica e vanno costruiti e inventati nuovi metodi di partecipazione e di coinvolgimento delle persone.

Ringraziamo di cuore chi ha dato la propria disponibilità alla candidatura, Maria Grazia Campus, Iaia de Marco e Maruzza Battaglia e tutti coloro che stanno prodigandosi ora con generosità.

Noi come Ecologiste/i lavoreremo a questa impresa comune della Lista Tsipras continuando a “gettare ponti” piuttosto che a dividere e separare, costruendo sul positivo, piuttosto che su quanto ancora non va.

Adesso occorre impegnarsi nella raccolta delle firme, sostenendo le donne e gli uomini che sanno riconoscere le istanze della parte migliore di questo paese, le sue reali difficoltà e le vie d’uscita più coraggiose.

Cercheremo quanto prima di organizzarci al meglio per facilitare la comunicazione tra noi.

Ringraziandovi ancora, un caro saluto e buon lavoro

Roberta Radich

Pietro Del Zanna

Laura Cima